Fra Giampietro Luzzato, Priore dell’Ospedale Sacra Famiglia di Erba, con questa lettera aperta vuole ringraziare il territorio lariano e le Provincie europee dell’Ordine ospedaliero per la meravigliosa solidarietà che hanno manifestato nei nostri confronti.
L’ultimo suo scritto ai TANTI BENEFATTIRI DELL’OSPEDALE DI ERBA
” Certamente questo è un difficile compito da portare avanti, per la gestione e soprattutto per il momento storico che stiamo vivendo, ma è anche un grande privilegio.
Assieme a tutti i Collaboratori ho affrontato questa situazione con un grande senso soprattutto di speranza. Qualcuno potrebbe obiettare che la speranza oggi è una virtù dimenticata, sebbene sia così necessaria nel mondo moderno, specialmente in una situazione così difficile che ci ha coinvolto tutti in prima persona. Nel corso della nostra giornata, infatti, molto spesso la Speranza entra nella mia vita e altrettanto spesso cerco di trasmetterla alle persone che mi stanno accanto, Confratelli e Collaboratori.
“Oggi la campagna di raccolta fondi ha raggiunto gli 825mila euro e sono importanti anche le donazioni di DPI. Il priore si è soffermato con grande orgoglio sul sostegno, non solo economico, delle oltre 6.000 persone che hanno voluto dimostrarci il loro affetto. Una menzione particolare alla Fondazione Provinciale Comasca per la vicinanza che ci ha manifestato, un profondo ringraziamento anche all’Ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, ai Fratelli Austriaci e alla Delegazione della Repubblica Ceca. Non da ultimo, il Priore ha voluto esprimere la sua gratitudine per il grande lavoro dei nostri collaboratori che con disponibilità e sacrificio hanno riorganizzato con grande efficacia i servizi ospedalieri al fine di garantire la migliore cura ai nostri malati.
Ogni giorno continuerò e chiederò a tutti di pregare il Signore per i benefattori, perché ci aiuti e ci guidi attraverso lo Spirito Santo, affinché ci ispiri saggezza, il consiglio della Beata Vergine Maria e il nostro Padre Giovanni di Dio ci accompagni sempre nell’animazione, nella guida e nella gestione di questo Ospedale.
Non ci sono molte parole per esprimere il più vivo ringraziamento a tutti coloro che hanno preso a cuore l’Ospedale e che stanno dimostrando un grande solidarietà. La comunità di Erba-Brianza ci ha sorpreso e commosso.
Il sostegno al nostro operato non solo economico ma anche d’incoraggiamento che leggiamo accanto alle donazioni ci aiuta in ogni momento ad essere e ad agire, nel costruire insieme ai Confratelli e ai Collaboratori un servizio secondo i valori che hanno ispirato San Giovanni di Dio nostro Fondatore. La gratuità umana è il lievito dell’azione che dà tanta forza e importanza allo sforzo di assistenza e cure che in questo Ospedale stiamo compiendo.
L‘ Ospedale non poteva rimanere estraneo all’evoluzione sconvolgente che si è venuta a creare e ha avuto la capacità, la visione, la forza e la saggezza necessarie a canalizzare l’energia e la buona volontà di tutti i Collaboratori non solo per superare gli ostacoli ma anche per continuare a portare avanti la sua attività al servizio del malato e all’insegna dell’eccellenza. Il mio pensiero va ai pazienti ricoverati che rischiano la vita a causa della loro malattia e alla loro condizione emotiva, sentendosi lontani dalle proprie famiglie.
Spesso il malato, provato dalla sofferenza e dalla malattia, non attende qualche cosa, attende qualcuno. Sa già di quali prestazioni ha bisogno, ha però bisogno di una presenza.
Non attende solo una mano competente che “faccia”, ma una mano da stringere, che gli dia sicurezza e che gli tolga quella paura inconscia che la medicina molto spesso non sa cogliere.
Questo è quello che chiediamo a tutti i nostri collaboratori.
Oggi l’Ospedale ci vede uniti e coesi, facendo i sacrifici necessari, riorganizzando il lavoro e i servizi, implementando nuove attività per fornire la migliore cura ai malati di questa pandemia. Devo ringraziare tutti i nostri collaboratori per la disponibilità e i sacrifici che stanno compiendo.
La gente guarda a noi sperando di scorgere prospettive per il futuro, strategie, capacità di prendere delle decisioni. Per fare questo non possiamo fare affidamento solo sulle nostre forze, ma abbiamo bisogno del supporto delle Istituzioni.
Le direzioni, in particolare il nostro Direttore Sanitario, che possiedono una grande esperienza, hanno compreso la gravità della situazione e hanno agito con professionalità e saggezza, chiudendo subito l’accesso all’Ospedale fin dai primi giorni di marzo, proseguendo poi nel regolamentare gli accessi e iniziando ad accettare e curare i malati di questa pandemia.
Poi l‘abbraccio della Comunità di d’Erba-Brianza ci ha aiutato, sostenuto e dato la forza.
Sicuramente il Direttore può descrivere meglio l’evoluzione che ha vissuto e sta vivendo la struttura, ma dalla mia esperienza sono stati momenti terribili, la carenza di farmaci e di ausili come mascherine, camici, occhiali, mi ha portato più volte a chiedermi alla sera prima di dormire “cosa succederà domani? E se dovessi prendere la decisione di chiudere l’ospedale?”. Certo non era una decisione che dovevo prendere da solo, ma se non si poteva garantire la necessaria sicurezza agli operatori e le cure ai malati?
DI ANGELO NOCENT
Caro FRA GIAMPIETRO, scrivono che avevi ancora tante cose da fare. Ma quali così importanti che altri non potranno sostituirti? Io invece credo e sento che CI SEI ANCORA. Forse più di prima. Dunque, se è così, parliamone.
Ricordi? Quante LITURGIE nel corso degli anni sulla vita del mondo CHE VERRA’, quanto Vangelo a rassicurarci che “CHI VIVE E CREDE IN LUI NON MORIRA’ MAI”. (Gv 11,26) Poi arriva il momento di fare in fretta i bagagli e noi andiamo in confusione totale. Facci caso: i verbi che ti riguardano, in circolazione in questo momento, sono tutti al PASSATO: ERI, CONOSCEVI, VIVEVI, CERCAVI…Noi siamo fatti così.
Ma il MAESTRO INTERIORE, lo SPIRITO, non ti ha piantato lì in pessime condizioni fisiche. Invece continua ad abitare la tua interiorità e a fare la sua parte, che è la principale.
Per esempio, mi par di capire che a chi ti ha conosciuto, tu voglia lasciare per testamento le benedette parole del Maestro: “…tu ti affanni e preoccupi di troppe cose!” Lc 10,41). E le altre, altrettanto sublimi ma irrazionali per le nostre povere teste: “IO SONO LA RISURREZIONE E LA VITA. CHI CREDE IN ME, ANCHE SE MUORE, VIVRÀ; ANZI, CHIUNQUE VIVE E CREDE IN ME NON MORIRA’ MAI”. (Gv 11,27-29)
Credo che potrebbe bastare.
Ti confesso però che non ho mai dimenticato le parole del Card. Giulio Bevilacqua sul letto di morte, mentre i parrocchiani passavano a salutarlo: “Piangete, perché è umano; ma GUARDATE A CRISTO che risurrezione e vita”.
Sulle citate Sacre Scritture merita leggere la spiegazione che ne dà l’amato Sant’Agostino, autore della SANTA REGOLA che hai professato:“Chi crede in me anche se è morto vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno.
Che vuol dire questo?
Chi crede in me, anche se è morto come è morto Lazzaro, vivrà, perché egli non è Dio dei morti ma dei viventi. Così rispose ai Giudei, riferendosi ai patriarchi morti da tanto tempo, cioè ad Abramo, Isacco e Giacobbe:Io sono il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe, non sono Dio dei morti ma dei viventi: essi infatti sono tutti vivi.
Credi dunque, e
ANCHE SE SEI MORTO, VIVRAI;
SE NON CREDI, SEI MORTO ANCHE SE VIVI.
Proviamolo.
Ad un tale che indugiava a seguirlo: “Permettimi prima di andare a seppellire mio padre”, il Signore rispose: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu vieni e seguimi”.
Vi era là un morto da seppellire, e vi erano dei morti intenti a seppellirlo: questi era morto nel corpo, quelli nell’anima.
Quando è che muore l’anima?QUANDO MUORE IL CORPO.
Quando è che muore il corpo?QUANDO VIENE A MANCARE L’ANIMA.
La fede è l’anima della tua anima. Chi crede in me – egli dice – anche se è morto nel corpo, vivrà nell’anima, finché anche il corpo risorgerà per non più morire. Cioè: chi crede in me, anche se morirà vivrà. E chiunque vive nel corpo e crede in me, anche se temporaneamente muore per la morte del corpo, non morirà in eterno per la vita dello spirito e per l’immortalità della risurrezione.”
Questo è il senso delle sue parole…(S. Agostino, Comm. al Vangelo di Giovanni 49, 15).
Non viaggia con la mula bianca come il suo illustre predecessore SAN CARLO BORROMEO durante la peste di Milano, ma porta nel cuore la medesima investitura del PASTORE BUONO: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14).
L’ARCIVESCOVO MARIO DELPINI AL FATEBENEFRATELLI DI ERBA
Nella famosa tela che ritrae San Carlo nel concitato scenario di corpi segnati dal dolore, l’arcivescovo procede lentamente, confondendosi con essi, se non fosse per quel timido gesto benedicente che dice della sua fede in Gesù Salvatore, affermata pur in quel drammatico contesto.
Tutto ciò resta sempre attuale anche ai nostri giorni. Oggi, più di ieri, nel mondo i corpi segnati dal dolore per il corona virus sono tanti. Il Primate dei vescovi lombardi, provato lui stesso dalla pandemia, non può che confondersi con le vittime, i familiari, gli operatori sanitarie e le istituzioni, cireneo chiamato a reggere la croce pesante che grava sul gregge. Solo un mercenario potrebbe fuggire ma il vero pastore no.
Come San Carlo anche il successore Mario non dispone che di un timido gesto benedicente, ma che rimanda anche ora come allora, alla sua e nostra fede in Gesù Salvatore, che va affermata proprio perché il contesto è drammatico.
Un giorno l’Arcivescovo MARIO ebbe a dire: “VOI SIETE BENEDETTI: ciascuno di voi – qualunque posto abiti, qualunque sia la condizione, il percorso, le vicende affettive – sappia che è BENEDETTO DA DIO.
La BENEDIZIONE non è una bacchetta magica che rende facili le cose ma è l’ ALLEANZA che Dio stabilisce con tutta la Chiesa e ognuno di noi.”
Ecco il motivo del tramandarne memoria: è per ricordare l’ALLEANZA che perdura nel tempo.
Sono grato al Buon Dio d’avermi dato modo d’arrivare al ventesimo anno del presente taccuino virtuale, nato per ospitare ricerche sulla storia e la spiritualità dell’Ordine Ospedaliero, fondato da San Giovanni di Dio e nel quale fui accolto il 7 ottobre 1963. E questo primo articolo del 2018 ho voluto farlo uscire nel giorno di nascita in Barcellona di Joan Vendrelli Campmany affinché rappresentasse un grato augurio di Buon Compleanno a un catalano che ebbi la fortuna di conoscere nel 2000, quando per recarmi al Capitolo Generale in Granada passai da Barcellona e lui mi accompagnò a visitare il luogo dove San Benedetto Menni aprì il suo primo ospedale in Spagna, punto di partenza della grandiosa missione del Santo nel far rifiorire l’Ordine Ospedaliero nella penisola iberica e in Messico. Incredibile è stata in tutti questi anni la costanza di questo tenace ricercatore delle vicende di Menni e desidero sottolineare che il presente articolo va considerato uno dei frutti delle suddette ricerche.
Ero già frate professo quando i Fatebenefratelli celebrarono nel 1967 il Centenario dell’inizio della ciclopica impresa di San Benedetto Menni di far rifiorire il ramo spagnolo del nostro Ordine. Da
IL PIÙ ANTICO OSPEDALE PEDIATRICO IN SPAGNA LO FONDÒ SAN BENEDETTO MENNI 150 ANNI FA
1 Per un’abbastanza recente sintesi, completa di riferimenti bibliografici, dei miei numerosi articoli su Menni, cf. Giuseppe MAGLIOZZI PIRRO, Ora ne sappiamo di più su san Benedetto Menni, in «Archivo Hospitalario», 2015, 13, pp. 327-370. 2 Il tema del radicale rinnovamento dell’Ordine, che Menni ottenne a livello della nuova Provincia da lui fondata e che cercò di estendere alle altre Province, è stato di recente magistralmente approfondito anche in Spagna da un nostro confratello sacerdote. Cf. Luis VALERO HURTADO, El P. Giovanni María PROVINCIA ROMANA DEI FATEBENEFRATELLI – DELEGAZIONE FILIPPINA “MADONNA DEL PATROCINIO” I L M E L O G R A N O TACCUINO VIRTUALE G I A N D I D I A N O Tel.: 00632/736.2935 Fax: 00632/733.9918 E-mail: ohmanila@yahoo.com 2 Attualmente il nostro Ordine sta commemorando il 150° Anniversario dell’impresa di Menni e anch’io, nonostante le difficoltà ideative createmi dalle mie ormai già quasi ottanta primavere, sto provando a dare un mio ulteriore contributo con degli approfondimenti su tre capitali punti di partenza di tale impresa. Primo di essi fu l’ordinazione sacerdotale, avvenuta il 14 ottobre 1866 e che gli facilitò l’inserimento nella difficile situazione politica spagnola3; secondo punto di partenza fu il suo prendere alloggio il 6 aprile 1867 in Barcellona4; terzo punto di partenza, al quale dedico il presente articolo5, fu l’apertura, poco fuori Barcellona, nel Comune di Gracia, poi inglobato nella metropoli, di un Istituto di Ricovero per bambini poveri, affetti da scrofolosi (un’adenite spesso tubercolare e allora frequente) e altre malattie invalidanti. Fino a quel tempo in Spagna si usava ricoverare i bambini assieme agli adulti, ponendo i minori di sette anni nei Reparti femminili e gli altri nei Reparti per adulti del loro sesso, sicché quello aperto da Menni, giusto 150 anni fa, è ricordato come il più antico Ospedale Pediatrico della Spagna e il terzo in Europa, dopo quelli fondati nel 1802 a Parigi in Rue de Sèvres e nel 1852 a Londra in Great Ormond Street. Fu il pediatra José Álvarez Sierra (morto il 20 marzo 1980, fu Direttore Sanitario a Madrid del nostro Ospedale Pediatrico “San Rafael” e, quand’era ancora studente di Medicina6, aveva avuto modo di conoscere da vicino Menni) il primo, già nel 1950, a segnalare in
Alfieri y la reforma de la Orden Hospitalaria San Juan de Dios en el siglo XIX. 1862-1888. La santidad en tiempos de crisis, Archivo-Museo San Juan de Dios “Casa de los Pisa”, Granada, 2014. Cf. anche Luis VALERO HURTADO, San Benito Menni o el umbral de una nueva hospitalidad. Aportaciones de la restauración al carisma juandediano, in «Archivo Hospitalario», 2015, 13, pp. 182-209. 3 Cf. Giuseppe MAGLIOZZI, 150° Anniversario della Prima Messa di San Benedetto Menni, in «Il Melograno», XVIII, 21, 27 settembre 2016, pp. 1-4. Cf. anche Giuseppe MAGLIOZZI, La Prima Messa di Menni, in «Vita Ospedaliera», LXXI (2016), 10, p. 15. 4 Cf. Giuseppe MAGLIOZZI, Analogie tra la Spagna di oggi e quella di 150 anni fa, in «Il Melograno», XIX, 5, 4 marzo 2017, pp. 1-5. Cf. anche Giuseppe MAGLIOZZI, La nostra rinascita in Spagna, 150 anni fa. Padre Alfieri ne fu la mente e san Benedetto Menni il cuore, in «Vita Ospedaliera», LXXII (2017), 3, p. 15. 5 Per un’affrettata sintesi del presente articolo, purtroppo inficiata da sviste (tre volte invece di dicembre è scritto ottobre), cf. Giuseppe MAGLIOZZI, Fu il primo Ospedale Pediatrico della Spagna. Lo fondò San Benedetto Menni a Barcellona nel 1867, in «Vita Ospedaliera», LXXII (2017), 12, pp. 16-17. 6 Cf. Giuseppe MAGLIOZZI, San Benedetto Menni visto da vicino, in «Il Melograno», III, 11, 24 aprile 2001, p. 1. Menni ai suoi inizi in Spagna 3 uno dei suoi libri7 questo primato del Santo e tornò ad accennarvi in un articolo8 pubblicato sul giornale «ABC» del 18 XII 1959. A tale primato di Menni diede poi gran risalto nel suo blog un appassionato studioso della presenza dei Fatebenefratelli in Spagna e soprattutto a Barcellona, che è la città dove è nato sette anni dopo di me e dove nel duemila fu mia guida nel visitare l’edificio in cui ebbe la sede iniziale il nostro Ospedale: si chiama Joan Vendrell i Campmany e più volte9 ha invitato a ricordare il primato di Menni con una lapide da porre accanto all’ingresso principale del suddetto blocco edilizio, in cui poi dal 1898 s’insediò l’attuale Collegio “Sant Miquel” dei Missionari del Sacro Cuore. L’appello è stato infine accolto in occasione del 150° Anniversario dell’inaugurazione dell’Ospedale, che
7 Cf. José ÁLVAREZ SIERRA Y MANCHÓN, Influencia de San Juan de Dios y de su Orden en el progreso de la medicina y la cirugía, Madrid, Artes Gráficas ARGES, 1950, p. 68. 8 Cf. José ÁLVAREZ SIERRA Y MANCHÓN, De la lucha contra la poliomielitis. El primer Hospital de niños que se fundó en España, in «ABC (Madrid)», 18 diciembre 1959, pp. 21-22. 9 Per il primo suo invito a porre una lapide, cf. Joan VENDRELL I CAMPMANY, Recordando el 145 Aniversario de la inauguración del primer Hospital Infantil de España (1867-2012), nel sito http://vendrellcampmany.blogspot.com.es/2012/12/recordando-el-145-aniversario-de-la.html Il Collegio “Sant Miquel” ai tempi di San Benedetto Menni e come appare oggi La Cappella fu ampliata per le esigenze del Collegio, però già Alfieri la volle di 240 posti, così da accogliervi i fedeli della zona, visto che la loro Parrocchia era troppo distante 4 è stato festeggiato con un piccolo anticipo il primo dicembre per non interferire troppo negli impegni della Scuola e dei protagonisti della celebrazione, svoltasi nella Cappella. V’era presente mezzo migliaio di persone ed è iniziata con canti eseguiti dalla Corale del nostro Ospedale e poi da varie altre corali cittadine e da singoli cantanti, accompagnati dall’orchestra Ars Medica della Federazione Medica di Barcellona. Hanno rivolto un saluto ai presenti il Provinciale dei Missionari del Sacro Cuore, p. Francisco Blanco e quello della nostra Provincia Aragonese, fra José Luis Fonseca Bravo, che al termine del concerto hanno scoperto una piccola lapide commemorativa in catalano, posta ad altezza d’occhi (unico modo di renderla leggibile) accanto al portone d’ingresso della Scuola e di cui ecco la traduzione: Il 14 dicembre 1867 fu aperta in questo edificio la prima sede dell’Ospedale San Giovanni di Dio, primo ospedale pediatrico dello Stato spagnolo. Barcellona, 1° dicembre 2017. Oltre alla suddetta cerimonia, tenutasi il primo dicembre nella Cappella del Collegio “Sant Miquel”, il 150° Anniversario dell’inaugurazione dell’Ospedale è stato ricordato a Barcellona nell’esatta sua data, ossia alla sera del 14 dicembre, con una Messa Solenne nella monumentale Basilica della “Sagrada Familia”, celebratavi in rendimento di grazie non solo per i 150 anni di attività del nostro Ospedale, ma anche per il compiersi di 150 anni dall’inizio della Restaurazione in Spagna del nostro Ordine Ospedaliero, la quale ebbe avvio ufficiale con l’inserimento canonico in tale Ospedale della prima Comunità Religiosa, formata da Menni e da altri due frati appositamente inviativi da Alfieri: l’italiano fra Materno Seregni e lo spagnolo fra Juan de Dios Bramón. Ha presieduta il Rito mons. Agutí Cortés Soriano, Vescovo di Sant Feliu de Llobregat, che è la Diocesi da cui dipende attualmente il nostro Ospedale. Con lui hanno concelebrato il Vescovo Ausiliare di Barcellona, mons. Sergi Gordo Rodríguez, il nostro confratello vescovo, fra José Luís Redrado Marchite e un folto gruppo di sacerdoti I due Provinciali scoprendo la lapide, posta affianco al portone della Scuola 5 amici o membri del nostro Ordine. Hanno partecipato al Rito circa tremila tra collaboratori, volontari e benefattori, ai quali ha dato il benvenuto il Superiore della Provincia Aragonese, fra José Luis Fonseca Bravo. Hanno animato la liturgia il Coro del nostro attuale Ospedale di Barcellona, formato da ben 117 cantori, e il Coro degli Ingegneri di Barcellona, nonché la solista Hortensia Martínez e l’organista Manel Ruiz. La foto qui accanto è stata scattata mentre il nostro Superiore Generale, fra Jesús Etayo Arrondo, teneva l’omelia, rivolta ai circa tremila tra collaboratori, volontari e benefattori, accorsi alla Commemorazione. Egli ha sottolineato10 che Menni seppe far rifiorire l’Ordine dei Fatebenefratelli e guadagnarsi il primato d’aver fondato il primo Ospedale Pediatrico della nazione “grazie alla spinta, all’audacia e alla passione destategli da San Giovanni di Dio e dagli infermi”, ricordando le quali i Fatebenefratelli avvertono l’impegno di “continuare a rendere presente, vivo e attuale il messaggio dei campioni dell’Ospitalità, San Giovanni di Dio e San Benedetto Menni”. Merita qui brevemente accennare alle vicende che permisero a Menni d’aprire questo suo primo Ospedale e più tardi l’indussero a trasferirlo in altra zona. Giunto a Barcellona il 6 aprile 1867, gli fu offerto alloggio come Cappellano nell’Ospedale Santa Cruz, il che anche gli dette modo sia di prodigarsi come infermiere con i malati, sia di conoscere alcuni benefattori che frequentavano le corsie e che promisero di aiutarlo nel suo progetto. Il maggiore suo benefattore fu il commerciante Nonito Plandolit Matamoros, che già da tempo era amico del nostro Superiore Generale, fra Giovanni Maria Alfieri, e che generosamente fittò due proprietà contigue, di un’area totale di 2.267 m² e site appena fuori città, nel comune di Gracia (poi inglobato da Barcellona nel 1897), all’angolo tra la Via Muntaner e la Via Rosselló, iniziando a trasformarle in un piccolo Ospedale, con spazi per il Convento e una Cappellina11. Già nella riunione del 17 luglio Alfieri poté informare i suoi Consiglieri che la nuova fondazione stava prendendo forma e che non solo v’erano persone impegnate a sostenerla ma anche giovani pronti a unirsi ai frati e che, dopo un opportuno discernimento, avrebbero potuto entrar Novizi a Marsiglia.
10 Cf. http://www.ohsjd.es/noticia/clausura-del-150-aniversario-restauracion-orden-hospitalaria-sanjuan-dios-espana. 11 La proprietà presa in affitto da Plandolit, fu poi da lui acquistata già il 30 luglio 1869. Cf. Angel M.a RAMÍREZ BAYONA, Breves datos de la Historia de un Hospital, nel volume Libro Azul. Hospital San Juan de Dios, Esplugas de Llobregat (Barcelona), Plaza & Janés S.A. Editores, 1974, p. 21. L’omelia di fra Jesús Etayo Arrondo 6 Per poter sfuggire all’ancora vigente divieto di ricostituire gli antichi Conventi di Frati, Menni risolse di far figurare i membri della nascente Comunità come laici appartenenti a una Associazione di Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, avente come finalità la riabilitazione di bambini tra i 5 e 12 anni, affetti da scrofolosi o da rachitismo, provvedendo anche alla loro educazione e istruzione scolastica; dopo aver elaborato il Regolamento dell’Associazione, ne chiese l’approvazione governativa, che il 29 novembre 1867 gli fu concessa12 e pertanto ritenne venuto il momento d’aprire l’Ospedale. Scelse come data d’inaugurazione l’8 dicembre, festa dell’Immacolata, come segno di gratitudine per Pio IX, che aveva contribuito con un suo obolo alle spese di costruzione (come si tenne a divulgare nel pieghevole riprodotto qui a lato e che era distribuito per raccogliere offerte) ed era il Papa che aveva proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione della Madonna. Nel quotidiano locale Diario de Barcelona venne
12 Cf. Juan Ciudad GÓMEZ BUENO, El resurgir de una obra. Historia de la restauración de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios en España, Granada, Archivo Interprovincial, 1968, p. 61. 7 pubblicato il 7 dicembre questo avviso13: “Domani verrà solennemente benedetta la piccola cappella del nuovo ospedale che, servito da alcuni religiosi di San Giovanni di Dio, è stato appena ultimato nell’Ensanche, vicino la casa del signor Mendoza, con l’esclusivo fine di curarvi la scrofolosi dei bambini”. In realtà l’inaugurazione fu posposta al 14 dicembre dal presule di Barcellona, mons. Pantaleón Monserrat y Navarro, che prima di venire a celebrare la Messa nella cappella volle esser certo che la nuova Comunità Religiosa fosse stata approvata dal Vaticano. Però, nonostante avesse ottenuto da Pio IX una procedura d’urgenza per l’approvazione, Alfieri fu in grado di spedire al presule il Rescritto Apostolico della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari solo il 5 dicembre e la consegna del documento, affidata a un emissario residente a Marsiglia, tardò varie settimane14, ma probabilmente ciò che frattanto convinse il presule a celebrare la Messa d’inaugurazione, fu l’arrivo di altri due fatebenefratelli, che rendevano possibile dar vita a una Comunità Religiosa. Da una lettera inviata da Menni ad Alfieri sappiamo infatti che il 12 dicembre giunsero a Barcellona l’italiano fra Materno Seregni e lo spagnolo fra Giovanni di Dio Bramón, che fin dal precedente 15 novembre aveva scritto ad Alfieri dicendosi pronto ad andare a Barcellona o dovunque gli fosse stato ordinato15. Fra Materno, al secolo Costantino, era nato a Milano il 28 dicembre 1809 ed era entrato come Oblato nel nostro Ospedale di Cremona nel 1847, passando Novizio nel 1852 e Professo il 27 marzo 1853, prodigandosi in vari Ospedali della Provincia Lombardo- Veneta come Infermiere e come Formatore e offrendosi ripetutamente di partire in missione, finché Alfieri ne accettò la richiesta, inviandolo in Spagna16. Fra Giovanni di Dio, al secolo Francesco, era nato a Orfans (Gerona) il 14 febbraio 1832 e nel 1860 era entrato nel nostro Ordine in Francia, ma fece il Noviziato in Italia, professando a Roma nel dicembre 1863; dopo il suo invio in Spagna fu Priore nelle Case di Barcellona, Ciempozuelos, Granada e Siviglia, finché il 4 novembre 1899 lo colse la morte17. Alfieri nominò Priore a Seregni, che si prodigò anche come infermiere e
13 Per il testo originale spagnolo dell’avviso apparso il 7 dicembre 1867 a p. 11.289 del n. 341 del periodico «Diario de Barcelona», cf. Joan VENDRELL I CAMPMANY, 149º Aniversario de la fundación del primer Hospital Infantil de España, por el Padre Benito Menni (14 de Diciembre de 1867), nel sito http://vendrellcampmany.blogspot.com.es/2016/12/149-aniversario-de-la-fundacion-del.html. 14 Cf. Juan Ciudad GÓMEZ BUENO, El resurgir de una obra. Historia de la restauración de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios en España, Granada, Archivo Interprovincial, 1968, pp. 85-88. 15 Idem, p. 88. 16 Per fra Materno, morto poi in Italia il 12 novembre 1873, cf. Giovanna della Croce BROCKHUSEN – Mauro ZUCCHELLI, I Fatebenefratelli. Storia della Provincia Lombardo-Veneta. 1788-1887. Milano, Milano, Ed. Fatebenefratelli, 1999, tomo XXI, vol. III, pp. 178, 341-342, 357, 616, 713-716. 17 Per fra Giovanni di Dio Bramón, cf. A. M.a RAMÍREZ BAYONA, Breves datos…cit., p. 61. 8 farmacista, mentre Bramón ricevette gli incarichi di Economo, Questuante e Sagrestano, nonché di istruttore dei ragazzi ricoverati; inoltre fu accolto in Casa come Cappellano un virtuoso sacerdote diocesano, don Giacomo Garrabón, e fu nominato sanitario dell’Ospedaletto il medico Raimondo Almarch18. Quanto a Menni, oltre a restare il Delegato Generale del nostro Ordine in Spagna, continuò nel suo impegno pastorale nell’Ospedale della Santa Croce, anche se non vi risiedeva più, e gli fu anche chiesto dal presule di divenire il Direttore Spirituale di un Convento di Suore del Bambin Gesù, fondate in Francia nel 1662 e che gestivano il vicino Collegio del Bambin Gesù19. Nel Diario de Barcelona comparve il 20 dicembre questa cronaca dell’apertura ufficiale del piccolo Ospedale20: “Sabato 14 ebbe luogo l’inaugurazione, di cui parlammo in altro numero, di un piccolo ospedale per bambini scrofolosi e rachitici. È nell’Ensanche, in via Muntaner, vicino la casa del signor Mendoza. Si celebrò una modesta funzione religiosa, consistente in una messa che disse l’Ecc.mo e Ill.mo Signor Vescovo della diocesi, dopo la quale benedisse la cappella e la casa, terminando con un’assai ispirata e toccante omelia, che commosse tutti i presenti. Sua E. Ill.ma vide in quel piccolo ospizio dell’infanzia sfortunata, frutto dell’ardente carità di una famiglia che s’immola per amore al prossimo, il seme di uno dei tanti alberi piantati dallo spirito del cattolicesimo per corrispondere alle necessità dei nostri tempi, e che attirandosi la benedizione di Dio e la rugiada della carità delle persone di buon cuore, potrà arrivare a essere un’opera grandiosa y feconda. Desideriamo molto che si avverino le speranze del nostro degno prelato e che prosperi questo istituto che potrà contribuire ad alleviare molti mali che affliggono la generazione che ha da sostituirci”. L’auspicio del presule s’avverò non solo riguardo all’espandersi dell’attività assistenziale, tanto che se la mattina dell’inaugurazione i bambini ricoverati erano solo sei, all’indomani già erano occupati tutti e dodici i letti che erano stati allestiti, ma anche riguardo al fiorire della Comunità Religiosa per l’affluire di vocazioni locali, che erano seguite personalmente da Menni. La prima di esse fu Giovanni Blanch y Rull, nato a La Riera (Tarragona) il 6 agosto 1839 e accolto come Postulante il 2 gennaio 1868: fu ammesso in Noviziato il 9 giugno 1868, ricevendo in Religione il nuovo nome di fra Nonito, in omaggio a don Nonito Plandolit, massimo benefattore della nuova fondazione; emise la Professione Semplice il 31 luglio 1869 e quella Solenne il 25 marzo 1873; durante la drammatica rivolta
18 Cf. J. C. GÓMEZ BUENO, El resurgir…cit., p. 89. 19 Cf. Joan VENDRELL ICAMPMANY, Poco después de su llegada a Barcelona, el Padre Benito Menni aceptó el cargo de confesor de unas religiosas francesas que, por no saber español, confesaban en francés (año 1868), nel sito http://vendrellcampmany.blogspot.com/2017/04/poco-despues-de-su-llegada-barcelona-el.html. 20 Per il testo originale spagnolo dell’avviso apparso il 20 dicembre 1867 a p. 11.729 del n. 354 del periodico «Diario de Barcelona», cf. Joan VENDRELL I CAMPMANY, nel sito citato nella nota 13. 9 cantonale di Barcellona dovette rifugiarsi, al pari di Menni, in Francia, dove fu accolto il 3 aprile 1873 nella nostra Comunità di Marsiglia; quando Menni poté rimetter piede in Spagna come Volontario della Croce Rossa, gli si affiancarono vari altri confratelli spagnoli, tra cui fra Nonito, che s’erano rifugiati con lui a Marsiglia e tutti insieme giunsero a Pamplona nel febbraio 1874 e si prodigarono negli ospedali Militari di Ochandiano, Santurce e Irache, finché fra Nonito rimase vittima di una grave forma tubercolare che lo costrinse a tornare nel nostro Ospedale di Barcellona, dove il 15 marzo 1876 santamente si chiuse la sua vita21. Tornando alle vicende iniziali dell’Ospedale di Barcellona, già il 30 luglio 1869 Plandolit fu in grado di acquistare la proprietà dell’immobile che aveva fittato e l’anno seguente poté avviarne una radicale ristrutturazione edilizia che consentisse di aumentare i posti letto dell’ospedale e di dotarlo di una spaziosa Chiesa. Appena iniziarono i lavori, ne fu data così notizia22 dal Diario de Barcelona del 15 settembre 1870: “Ieri ebbe luogo l’inaugurazione dei lavori di costruzione dell’Ospedale per i bambini scrofolosi e rachitici, attiguo al presente edificio in via Muntaner. l’Ill.mo Signor Vicario Capitolare, Don Juan de Palau, assistito dagli Ill.mi Penitenziario, Dr. Don José Morgades, Economo della diocesi, e Rev.do Dr. Viñas, giudice ecclesiastico, pose la prima pietra e benedisse il locale della nuova chiesa dell’Ospedale, presenti alcuni parroci delle parrocchie più vicine, nonché altri ecclesiastici e persone distinte di questa capitale e in particolare alcune delle dame più zelanti nel soccorrere i poveri. Il progetto del nuovo edificio è opera dell’architetto e cattedratico della Scuola di Belle Arti, Don Francisco de Paula de Vilar, ed è stato studiato in modo da poterlo ampliare in futuro senza modificare l’edificio esistente. La chiesa è prevista per 240 persone per permetterne l’accesso alla crescente popolazione della zona, lontanissima dalle parrocchie più prossime”. Il 12 aprile 1871 Plandolit acquistò un lotto contiguo di 647 m², per dar più spazio all’Ospedale, che si estese per 2.267 m², cui vanno aggiunti i 1.141 m² occupati dalla Chiesa; inoltre Plandolit acquistò le pietre del Chiostro del Monastero di Santa Maria di Gerusalemme, che era in corso di demolizione, e le salvò dalla dispersione adoperandole per il Chiostro dell’Ospedale, del che fu così elogiato23 dal Diario de Barcelona del 3 febbraio 1872: “I lavori del nuovo Ospedale per Scrofolosi, di San Juan de Dios, stanno procedendo notevolmente. Già è quasi ultimata la facciata della chiesa, di stile
24 Cf. J. C. GÓMEZ BUENO, El resurgir…cit., pp. 173-174. Per le arcate inferiori del Chiostro dell’Ospedale si utilizzarono le pietre di un Chiostro demolito 11 allora di antibiotici per dominarle25. In tutte e tre le sezioni dell’Ospedale si provvedeva inoltre all’istruzione dei ragazzi mediante appositi corsi scolastici; a tal riguardo va sottolineato un altro merito e primato di tale Ospedale, ossia l’iniziativa presa da Menni nel 1887 di far venire da Parigi un insegnante speciale, che desse lezioni di musica ai bambini ciechi, tanto che si poté formare
21 Cf. Luciano DEL POZO, Caridad y Patriotismo. Reseña histórica de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios, escrita con ocasión del quincuagésimo aniversario de su reflorecimiento en España (1867-1917), Barcellona, Luis Gili, 1917, pp. 127-128. Cf. anche J. C. GÓMEZ BUENO, El resurgir…cit., pp. 114-115, 121 e 123-124. 22 Cf. A. M.a RAMÍREZ BAYONA, Breves datos…cit., pp. 26-27. 23 Cf. Joan VENDRELL I CAMPMANY, Nonito Plandolit compró las piedras del Claustro y las ofreció al padre Benito Menni, in http://vendrellcampmany.blogspot.com.es/2017/02/. 10 gotico. Quasi terminate le due ale dell’edificio e nel centro si è avuta la lodevole idea di ricostruire il bellissimo chiostro ogivale che era nel demolito convento di Gerusalemme”. I lavori terminarono nel settembre 1875, ma l’inaugurazione fu posposta al 4 dicembre per attendere il rilascio del permesso diocesano di aprire al culto la Chiesa. La recettività dell’Ospedale, che nel 1871 era arrivata a 50 letti, poté così salire a 100 letti, ma il bisogno era crescente e mancavano spazi per l’elioterapia, sicché si decise nel 1881 di traslocarlo nella zona di Las Corts de Sarriá in un’area molto più ampia, compresa tra l’attuale Avenida Diagonal e la Via Déu i Mata, dove si utilizzò un vasto edificio esistente in cui furono accolti 105 ragazzi, ma si pose il 26 febbraio 1882 la prima pietra di un nuovo complesso edilizio che fu terminato solamente nel 1908 e che aveva una capacità di 250 letti, distribuiti in tre sezioni: invalidi, malati con affezioni dermopatiche e ciechi24. L’edificio di Via Muntaner fu venduto ai Missionari del Sacro Cuore, che ne presero possesso il 14 novembre 1882, insediandovi dapprima il loro Seminario e poi trasferendovi nel 1898 il Collegio “Sant Miquel”, che v’è tuttora. Grazie alla maggior recettività del nostro secondo Ospedale, il che comportava una più ampia casistica, e grazie soprattutto al valido corpo sanitario, fu possibile offrire un approccio più approfondito alle due patologie cutanee cui era dedicata l’Istituzione, ossia la scrofolosi e il rachitismo, che a quei tempi erano due diagnosi molto frequenti, ma dai confini incerti e racchiudenti quadri patologici disparati, per cui era importante arrivare a distinguere nell’ambito della scrofolosi i quadri patologici autenticamente tubercolari da quelli di altra natura, il più spesso sifilitici; e nell’ambito del rachitismo i quadri da carenza vitaminica da quelli in realtà di differente eziologia, per lo più tubercolare o eredoluetica. Riguardo al settore degli invalidi, altro grosso merito scientifico di tale Ospedale fu di avere, grazie al rigoroso impegno professionale dei Fatebenefratelli nell’osservanza dell’asepsi, consentito lo sviluppo della chirurgia ortopedica riparativa, altrove quasi mai applicata per il fondato timore di complicazioni infettive, non disponendosi
Lui, ANDREA, dopo vent’anni di ministero sacerdotale, ha una relazione. Nasce un figlio. Seguono guai fino al collo. Sospeso A DIVINIS (non può esercitare), gli viene suggerito un anno “sabbatico”, ossia di riflessione. Non sa dove andare a Messa per evitare pettegolezzi e imbarazzi. Partecipa alla celebrazione domenicale nella cappella dell’ospedale, in piedi, in fondo.
MARCO è il cappellano, una persona splendida, che trasmette lo Spirito e raggiunge i cuori. HA UN TUMORE da più di un anno e sta facendo la CHEMIO. Si è sempre occupato di ammalati, di portatori di handicap, con grande umanità. I due si conoscono da vecchia data.
Una domenica, mentre commenta le letture, Marco s’interrompe: “SCUSATE, NON CE LA FACCIO PROPRIO”, dice togliendosi gli occhiali. Si siede. Nell’assemblea un silenzio di tomba. Andrea dal fondo osserva. Poi si affretta, attraversa la navata, lo prende sottobraccio e lo accompagna in sacrestia. Un sorso d’acqua, qualche parola di scuse del celebrante, ma i minuti passano…
“DEVO FINIRE LA MESSA”,dice.
Andrea: “Ce la fai?”
Marco lo guarda supplichevole. “Puoi continuare tu?”, gli chiede.
“Purtroppo no, lo sai, non sono autorizzato. Facciamo così: TU CONSACRI e IO DISTRIBUISCO LA COMUNIONE”.
Marco si alza con fatica e così fanno.
Poi in sacrestia uno scambio di battute.
ANDREA: “Non è meglio gettare la spugna, farsi sostituire?”
MARCO si confida: “Andrea, negli ultimi anni ho passato le mie giornate in corsia, parlando con gli ammalati, cercando di essere loro vicino, di dar loro una speranza. Ma erano solo dei bei discorsi. Sentiti questo sì, MA DETTI DA UNO CHE STAVA BENE, da un cappellano che faceva il proprio dignitoso mestiere.
ADESSO, quando passo, tutti sanno che sono proprio come loro, un malato, un prete in croce, un terminale e mi ascoltano volentieri. ADESSO SONO PIU’ CREDIBILE”.
Indugia. Poi: “Se servo al Signore, io resto, finché mi reggo in piedi”.
Un grande psichiatra alla vigilia dei 90 anni si racconta nell’autobiografia «Il fiume della vita. Una storia interiore» (Feltrinelli): l’infanzia, le letture, la terapia dell’ascolto
di GIULIA ZIINO
«Non dovremmo mai dimenticare, lo ripeto senza fine, che senza analizzare cosa avviene in noi, nella nostra vita interiore, nulla sapremmo cogliere delle emozioni dei pazienti, e delle cose da dire loro».
Il saggio di Eugenio Borgna, «Il fiume della vita. Una storia interiore», è pubblicato da Feltrinelli (pp. 192, euro 16)
«Senza fine». Davvero non si stanca di ripeterlo Eugenio Borgna: la psichiatria, per lui, non è mai solo terapia del farmaco ma — e prima ancora — è medicina dell’interiorità. «La psichiatria — scrive — è chiamata a scendere nel cuore dei pensieri e delle emozioni delle persone, alle quali si rivolge, avviandosi alla comprensione del mistero della cura, che non può se non essere comunità di cura, e talora comunità di destino». Contatto, comunità, destino, ascolto profondo dell’altro, che è paziente ma — soprattutto — essere umano che soffre. E poi quella parola-spia, «interiorità», che torna anche nel sottotitolo — Il fiume della vita. Una storia interiore (Feltrinelli) — di questa che è un’autobiografia di vita — ricordi, incontri, esperienze cliniche, letture — e, al tempo stesso, il manifesto di un metodo. Di un medico e di un uomo.
Borgna, classe 1930 (luglio, ma, lo scrive lui citando Marc Augé sulla banalità del chiedere «quanti anni hai?», «conosco la mia età, posso dichiararla ma non ci credo»), è uno psichiatra, primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Qui, in questo libro, racconta sé stesso. Quasi novant’anni di vita partendo da quando, bambino, dopo l’8 settembre e l’entrata del padre nella Resistenza, lasciava casa sua con madre e fratelli per rifugiarsi in un paesino sul lago d’Orta, più al sicuro dalle incursioni dei soldati tedeschi in cerca del capofamiglia.
L’infanzia solitaria, gli studi fatti all’inizio senza una forte convinzione, l’avvio della carriera di medico. Borgna passa in rassegna i fatti, ma molto scava nell’interiorità: emozioni, paure, ricordi, ogni fase della vita è, più che cronaca, spunto per una riflessione. Sul valore della memoria, sul mestiere di psichiatra, sul diventare anziani. Un lavoro di ricerca constantemente accompagnato dalle parole dei filosofi e, soprattutto, dei poeti cari all’autore — Leopardi moltissimo, poi Keats, Corazzini, Hölderlin…, pagine che, si intuisce, Borgna ha letto e meditato a lungo.
A che cosa serve un’autobiografia? A raccontare una vita, un’epoca. In questo caso, l’urgenza — più della nostalgia, della rievocazione di luoghi e persone, della citazione letteraria per quanto vissuta e funzionale alla narrazione — sembra essere un’altra: comunicare senza stancarsi, «senza fine», un’idea «umana» della psichiatria. «Certo — scrive Borgna — se nel fare psichiatria non siamo capaci di immedesimarci nella vita interiore dei pazienti, e ci limitiamo ad analizzare e a descrivere i loro comportamenti, se non siamo capaci di intelligenza del cuore, non ci sarà possibile cogliere fino in fondo il senso del dolore e della sofferenza».
Cuore, intuizione, fantasia creatrice: parole che sembrano lontane dalla prassi e dal metodo scientifico. Ma la teoria di Borgna non è lontana dalla pratica, anzi: esperienza fondativa della sua visione sono i sedici anni trascorsi a Novara, come primario e poi come direttore dei reparti femminili del manicomio cittadino. «Nel 1963 sceglievo di andare a Novara. La mia vita si apriva così alla psichiatria»: è qui, a contatto diretto con il dolore, che il giovane medico Borgna scopre la sua vera vocazione. La realtà del manicomio gli appare subito diversa dalle aspettative: «Non il deserto delle relazioni e delle emozioni, ma lo stupore dell’ascolto e della reciprocità relazionale, non la percezione della follia come esperienza radicalmente estranea alla condizione umana, ma come esperienza che fa parte della vita di ciascuno di noi». Non elettroshock, ma ascolto. A Novara Borgna tocca con mano la sofferenza derivante dalla follia ma trova anche la chiave della «sua» psichiatria: l’empatia, il dialogo. I pazienti di cui nel libro rievoca le storie non sono casi ma volti, nomi, parole.
Nel maggio 1978 una nuova cesura, la svolta che cambia la psichiatria italiana e, insieme, orienta la parabola professionale del clinico: la legge Basaglia chiude i manicomi. Anche Novara, seppure realtà lontanissima da quei luoghi crudeli e lesivi della dignità dei pazienti contro cui si batteva Basaglia. Novara è un manicomio «arcaico e inattuale — scrive Borgna — direi artigianale», e proprio per questo poteva essere il laboratorio in cui sperimentare i valori di un’altra psichiatria, «gentile e umana». Fuori da lì, per Borgna si apre la via della libera professione: è tempo di trovare un nuovo modo di confrontarsi con i pazienti, diverso ma sempre basato sui medesimi principi, l’ascolto e la parola.
Non c’è disaccordo con la rivoluzione voluta da Franco Basaglia, anzi. Semmai disappunto per ciò che di quella riforma così radicale e importante è rimasto disatteso: «Dire che da noi, nel nostro silenzioso manicomio, queste cose non sono mai avvenute non significa contestare la legge, ma solo ribadire che non è stata ancora completata» e ciò si deve alla «fragile e precaria formazione emozionale e culturale degli psichiatri. Senza di essa, senza passione della speranza e senza entusiasmo, senza autentiche attitudini alla immedesimazione e all’ascolto del linguaggio delle parole, degli sguardi e dei volti, non si fa una psichiatria come quella immaginata da Basaglia». O da Eugenio Borgna.
5 febbraio 2020 (modifica il 7 febbraio 2020 | 21:01)
Lettera da malato a malata. Roberta e la Sla, il diritto non è la morte ma la vita
Salvatore Mazza – giovedì 27 giugno 2019
Cara Roberta,
ho letto la sua storia sul quotidiano a cui ha affidato i suoi pensieri e la sua richiesta di poter mettere fine in fretta, con l’eutanasia, alle sue sofferenze. Mi permetto di scriverle perché, come lei, sono ammalato di SLA, e se ha avuto modo di leggere le pagine del diario che da alcuni mesi affido ad Avvenire (‘Slalom’, ogni 15 giorni sull’inserto ‘È Vita’ e anche su avvenire.it), saprà che i suoi pensieri, le sue paure, le sue angosce sono uguali alle mie. Come lei conosco molto bene i problemi e i sentimenti che questa patologia finisce per imporci. Conosco le notti insonni perse guardando il buio, conosco lo svuotarsi giorno dopo giorno di ogni energia, conosco la paura per quello che verrà. Conosco il problema di
non poter far fronte a tutte le cose che questa malattia richiederebbe,
ai soldi che ogni mese finiscono prima,
al pensiero di non potersi permettere un’assistenza adeguata alle nostre esigenze,
al dover rinunciare per questo anche a quegli integratori che, se non ci salvano la vita, potrebbero almeno alleviarcela.
Così come conosco molto bene i pensieri di morte che l’accompagnano, anche per il troppo tempo che abbiamo per pensarci, magari fissando nella nostra immobilità forzata sempre lo stesso spicchio di cielo dalla stessa finestra.
A differenza di lei non mi sento abbandonato dalla famiglia, anzi. Mi stanno tutti vicino, e con loro molti amici, molti di più di quelli che si sono allontanati e dei pochissimi che si sono rivelati degli sciacalli. Ma tutto questo amore attorno a me non allontana quei pensieri di morte e in qualche modo, al contrario, a volte sembra avvicinarmeli perché non mi piace l’idea di ricambiare quell’amore con un peso che sembra ogni giorno più intollerabile e ingestibile.
Però il punto è proprio questo: non mi permetto di giudicare il suo appello a morire con dignità, ma proprio adesso che il Parlamento sta per affrontare la questione, credo che prima abbiamo il dovere di rivendicare il diritto a vivere con dignità, anche in questa condizione estrema. E sappiamo molto bene, lei ed io, come questo ci sia negato. La burocrazia ci uccide con le sue lentezze inesorabili, fingendo di ignorare che per noi contano i minuti, non i mesi. Ha mai avuto modo di notare come in Italia si vedano per strada o nei ristoranti pochissime persone nelle nostre condizioni? Nel resto d’Europa, in Francia, Germania, Gran Bretagna questo non succede, è anzi la normalità, ma noi molto presto restiamo prigionieri delle nostre case, perché il costo di ogni adeguamento delle abitazioni – montascale, ascensori, barriere architettoniche interne – è quasi integralmente a nostro carico e nessuno può affrontare certe spese.
Lo stesso per l’assistenza di cui abbiamo bisogno 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno: le Regioni assicurano un pugno di ore a settimana, nel Lazio 15,5, e il resto? Chi è in grado di sostenere certe spese? In Italia ammalarsi come siamo malati noi è un lusso per pochissimi. Siamo la nazione europea in cui si spende di meno per sanità, e dove i servizi domiciliari praticamente non esistono. Se lei ed io fossimo ammalati in Germania lo Stato avrebbe adeguato a sue spese le nostre abitazioni, potremmo contare su tutto quello di cui abbiamo bisogno quotidianamente, e non parlo solo di presidi medici, ma anche, per esempio, di computer speciali per poter lavorare o anche solo passare il tempo; addirittura lo Stato arriva a pagare il surplus di energia elettrica necessaria a far funzionare le macchine di cui abbiamo bisogno. Io credo che questa sia civiltà, un assicurare una vita dignitosa che non può non precedere l’assicurare una fine dignitosa. Senza quella, riconoscere il ‘diritto a morire’ è semplicemente un modo di lavarsi le mani di noi e dei nostri problemi, sperando che togliamo in fretta il disturbo, una sorta di moderna Rupe Tarpea da cui gettare le persone ritenute inutili.
Assicurarci il diritto a vivere con dignità costerebbe pochissimo considerato quanti siamo. Ma proprio perché siamo pochi, non contiamo, non valiamo, non siamo nulla. Siamo, appunto, già morti, e riconoscerci il diritto a morire è una grandissima, ipocrita comodità.
Mi scusi ancora, signora Roberta, di averla disturbata nel suo dolore che, mi creda, è anche il mio. Vorrei però che, così come invoca il suo diritto a poter scegliere una morte dignitosa, si unisse a me nell’invocare una vita dignitosa. Non costa molto. L’Italia ha insegnato al mondo che cosa siano la civiltà e la bellezza. Dovrebbe continuare a farlo proteggendo i più piccoli e deboli. Sarebbe una grande cosa in questo tempo che al contrario sembra voler rimuovere dalla Storia i piccoli, e i deboli.
Correva l’anno 1970. Il clima che si respirava era quello del ’68. Ma anche del post Concilio Vaticano II. Mentre i voli spaziali occupavano la mente degli scienziati e delle cronache, il Papa Paolo VI faceva quotidianamente i conti con “l’aggiornamento” della Chiesa che sembrava avere dei costi elevatissimi.
Le sue parole sono sintomatiche delle tensioni presenti nella Chiesa di allora ma illuminanti anche per il nostro tempo, con vecchie e nuove contraddizioni.
OPZIONI ’70 ha avuto vita corta. La pubblicazione è morta solo dopo sei uscite. Ma è un MORTO CHE CAMMINA, perché lo Spirito, al di là degli strumenti di cui si serve, nessuno può sopprimerlo: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va…” (Gv 3,14.15). Ieri, oggi, sempre. E c’è la PAZIENZA DI DIO, in contrasto con l’IMPAZIENZA GIOVANILE.
Cosa resta? Restano i segni allegorici, misteriosi e pieni di luce: “Di nuovo Gesù parlò loro: Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce dellavita” (Gv 8,12).
E un’altra verità consolante: “Chi beve di quest’acqua avrà di nuovo sete. Ma l’acqua che io gli darò è un getto che zampilla fino alla vita eterna” (cfr. Gv 4,13).
Restano la nostalgia della profondità di Dio, il sapore di chi ha gustato la manna nel deserto (Es 16,15), il profumo inebriante del divino e, da servi inutili, la disponibilità a portare a compimento l’opera da Lui iniziata, con la costante immersione nell’ascolto della “voce del vento”, senza vanificarla nella pretesa di conoscere da dove viene o dove va. A Dio la libertà di CONDURRE l’incontro, a ciascuno la libertà di LASCIARSI CONDURRE.
La piccola “redazione” di un periodico ciclostilato a petrolio, volendo assommare le voci di tutti, reagiva così:
AI NOSTRI FRATELLI
Le nostre comunità, oggi, come del resto sempre, si trovano di fronte a problemi molto gravi. Però, ad analizzarli, si vede che alla fine essi si riducono a un solo problema di fondo che sta alla base di tutti. E’ l’eterno problema di risolvere il rapporto fra l’INDIVIDUALITA’ che ciascuno di noi sente fortemente, e la SOCIALITA’, della quale pure non può fare a meno, perché è anch’essa essenziale all’uomo.
Nella circolare del 9 Gennaio 1969 il nostro Provinciale P. Pierluigi Marchesi giustamente affermava che “non si realizza un’autentica vita comunitaria, unicamente perché si prega assieme, ci si nutrisce assieme, si dorme nello stesso ambiente, si fa ricreazione insieme.”
Purtroppo notiamo che spesso nelle nostre comunità manca proprio qualche cosa che ci leghi fra noi, che permetta di stabilire fra noi un rapporto in cui ciascuno non si senta più solo, per cui la vita comunitaria non sia solo formalmente comunitaria, ma sia veramente e concretamente la manifestazione di persone che mettono in comune le gioie e i dolori, che lavorano uniti, vivono insieme, studiano insieme, e quindi realizzano insieme una umanità completa, non una semplice mescolanza di indivisui che si trovano per caso o per forza a dover operare e vivere nello stesso gruppo. E proprio perché si prescinde da quella che è la chiave di questo problema fondamentale, cioè l’amore, i nostri problemi individuali e sociali che si radicano tutti su di esso, finiscono per diventare insolubili; anzi finiscono per moltiplicarsi ed approfondirsi.
Realmente ci sono delle difficoltà che forse per la natura stessa dell’uomo, non saranno mai risolte, ma resta indubbio che la forma con cui la Comunità si presenta, ha delle gravi deficienze. Ancor oggi, nonostante qualche tentativo, le nostre comunità si presentano con una staticità, con un nichilismo inflitto all’individuo con forme di soggezione (anche se non sempre aperta e cosciente), di depauperamento del singolo che sono frequentemente il grave peso e la grave deficienza della vita religiosa. E’ una reale difficoltà di troppi giovani ad accettare la nostra vita proprio per queste ragioni. Sono ancora troppi coloro che nelle nostre comunità sono incapaci di accettare nuove fecondità.
La forma attuale di vita delle nostre fraternità rispecchia ancora uno stile tipicamente monastico, accolto però nelle sue forma esteriori e meno vitali e perciò impoverito, e applicato a degli uomini che vivono la loro giornata in un altro contesto completamente differente, qual è appunto il mondo ospedaliero in fase di continua evoluzione. Crediamo che ogni esemplificazione sia superflua.
Preghiera, silenzio, contemplazione, lavoro, sono essenziali ad ogni uomo che sceglie il Vangelo. Il modo di vivere questi momenti deve essere però dinamico, deve nascere all’interno della Fraternità, come espressione di uomini adulti in Cristo, non come ripetizione di atti sempre uguali tsabiliti da un orario una volta per sempre e che, a lungo andare, conduce a un mortificante infantilismo. Si pesi, ad esempio, alle mille meditazioni stupide che si fanno in un anno! Eppure, l’importante è che duri mezz’ora e si svolga in quel momento preciso della giornata che può essere anche il meno indicato, almeno per alcuni.
Superiori e no, siamo tutti troppo poco convinti che colui che entra nella nostra Fraternità lo fa per realizzare una vita battesimale veramente adulta. Il Padre Tillard sostiene che questo è certo il fine dell’entrata in religione, come anche la ragion d’essere del superiore: “Non si fa infatti professione formalmente con lo scopo di vivere costantemente sottomesso a dei capi, ma al contrario, per condurre a piena maturità e a libertà perfetta l’essere-cristiano che il battesimo ha deposto in noi”.
“Perché l’adulto è colui che, giunto al termine della sua crescita, della sua educazione, è d’ora innanzi capace di esercitare la sua responsabilità personale di cretura libera. E ciò senza aver bisogno di continuo di essere spinto da un altro. La vera spinta gli viene dall’interno“.
Nella circolare già citata, il P. Provinciale diceva ancora che “la vera sicurezza che si vive una vita comunitaria la si ha quando ognuno tende alla propria santificazione nella ricerca tormentata di un bene comune sempre più vasto e sicuro“. Ma noi pensiamo che l’attuale vita comunitaria, così come si presenta, non permette, o per lo meno rende difficile la realizzazione di questo bene comune. Senza toccare le strutture e i metodi esistenti, senza sperimentare forme nuove di convivenza, nuove nel senso della novità e semplicità evangelica, è come pretendere che un bambino si sviluppi in un vestito stretto.
Siamo soliti dire che alla base delle nostre crisi di oggi c’è una grave crisi di amore. Ed è vero. Ma ci convinciamo sempre di più che è un discorso fatto a metà. E’ come se dicessimo al popolo affamato dell’India che la sua è una crisi di fede e di sfiducia nella Provvidenza del Padre che sta nei cieli, il quale nutre persino gli uccelli dell’aria, e fermassimo qui il discorso, senza tentare delle radicali riforme sociali.
Sentiamo fortemente il bisogno di fare un’esperienza CRISTIANA che sia autentica nei suoi contenuti e in accordo con il nostro tempo, esperienza sempre più ecclesiale, per la responsabile appartenenza al Popolo di Dio, esperienza sempre più escatologica perché chiamati per elezione divina a questa testimonianza nella comunità universale, nella ricerca di sbocchi concreti nel servizio alla Chiesa locale cui ciascuno di noi appartiene.
Noi avvertiamo che i quadri istituzionali non favoriscono i nostri desideri di una esperienza effettivamente comunitaria della comunione ecclesiale. Siamo tuttavia sinceramente disponibili a collaborazioni che non siano strumentalizzate ad un superficiale aggiornamento delle strutture e delle attività della Comunità-Chiesa-locale. Vorremmo quindi approfondire tra noi l’esperienza ecclesiale, senza preclusioni o pregiudizi verso le strutture istituzionalizzate, ma in atteggiamento di critica disponibilità.
Ci auguriamo che anche altri sentano il bisogno di mettersi in questa direzione e si stabilisca tra le varie comunità uno scambio di esperienze e di idee, nell’intento di portare un po’ di speranza e di luce a noi stessi e a tutti quelli che oggi sono nel turbamento.
Ci siamo limitati a dire onestamente e francamente quello che pensiamo. E ammettiamo che i nostri puunti di vista sono, sotto diverse angolature, soggetti a revisione. In fondo, queste riflesssioni non vogliono essere, per tutti, che un invito al coraggio.
Chi si è occupato di San Riccardo Pampuri in questi anni lo ha definito in tanti modi. Penso al “santo semplice”. A forza di tornarci sopra, oggi mi sentirei di riassumerlo in due parole: il SANTO FRAGILE. Anche se mi rendo conti che i santi sfuggono alle semplificazioni.
Quanto segue vorrebbe spiegarne il motivo di questa sua fragilità sulla quale i biografi non si sono mai soffermati. Epperò, vorrei evidenziare che non siamo in presenza di un nano ma di un gigante che potrebbe benissimo far sua l’affermazione di San Paolo: “Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10)
CAMPOSANTO O DEL DOLORE INNOCENTE
CIMITERO
La parola «cimitero» deriva dal greco κοιμητήριον (koimetérion, «luogo di riposo»: il verbo κοιμιν («koimân») significa «fare addormentare»), attraverso il tardo latino cimiterium.
Non conosco il cimitero dove riposano i genitori di Erminio, ma, in fondo in fondo, – non dico quelli monumentali delle città – i cimiteri dei nostri paesi si assomigliano tutti: un’entrata scarna: un cancello, un arco, una scritta del tipo In pace Christi requiescant, oppure Resurrecturis, sui muri una tintura bianca o paglierina, un lungo viale di ghiaia bianca, ombreggiato da altissimi cipressi, stradine trasversali, lapidi di ogni età e ceto, cappelle di famiglia, una Croce dominante, un silenzio di tomba, rotto di tanto in tanto dagli scavatori di nuove fosse o dal salmodiare per nuova sepoltura.
Quando hanno seppellito mia madre, ottantaduenne, io alla vigilia dei sessanta, nei giorni successivi, girovagando inosservato lungo i perimetri della muraglia, in cerca sulle lapidi di visi noti e cari alla memoria, mi son messo a raccogliere sassi, quelli più grossi, usciti di fresco dagli scavi e, man mano, uno, due alla volta li portavo sulla sua tomba e li collocavo intorno al cumulo di terra, perimetrando le quattro spanne che il Comune concede in usufrutto ad ogni deceduto.
La tomba provvisoria, fatta con le mie mani, in attesa dell’assestamento del terreno, sembrava tenuta insieme da una corona del rosario. I grani di sasso partivano dalla Croce di legno posta al centro, proprio sopra il capo di lei che la Croce l’ ha sempre avuta in testa e facevano un giro rettangolare lungo quanto una persona avvolta nel sonno della morte, per ricongiungersi alla Croce.
Piccolo gesto di pietà filiale il mio che ha provocato un breve suo risveglio per sussurrarmi, da là sotto, parole arcane venute presto in superficie.
Sì, un brusio lieve ed accorato che solo io potevo percepire, per ricordarmi che in Dio si nasce e, per tornare a Lui, si muore. Dopo, silenzio muto.
Un attimo per metabolizzare quel messaggio di presenza viva di cui le sono grato e subito dal cuore uno sgorgare fluido di versi e di preghiera che ho scritto sulla nuda terra e che riporto qua con commozione:
“Di te giacconi qui, sotto le pietre,
Madre, solo le stanche spoglie.
Ma la tua vita è ormai
eternamente in Dio
che finalmente vedi.
Arrivederci, mamma.
E, nell’attesa dell’evento,
di quel prodigio di risurrezione
di questa nostra carne deperita,
prega per noi ed intercedi. Amen”.
Ho riportato la mia esperienza di uomo adulto semplicemente per dire che certe vicende, dolorose anche per gli adulti, se si fanno da bambini, non si possono cancellare dalla memoria come un brutto sogno da dimenticare in fretta. Perché segno lo lasciano. E duraturo.
Non so se ed in quale Camposanto esiste traccia della tomba dei genitori di Erminio Filippo, papà Innocente Pampuri e mamma Angela Camparidi. Non posso credere però che da quel 25 Marzo 1900, festa dell’Annunciazione, e per tanti anni ancora, mamma Angelina dal Cielo non abbia parlato al cuore dei suoi bambini, per un miracolo che Dio è lieto di concedere ai papà e alle mamme di tutto il mondo. Diversamente, cosa ci si andrebbe a fare al cimitero, per parlare con un «cinere muto» o per rimestar nelle ferite?
Immagino le tante volte che il piccolo Erminio, a piedi con zia Maria o con la domestica Carolina e in calesse quando veniva anche lo zio Carlo, un bel mazzo di fiori freschi appena colti, avrà fatto il tratto di strada che da Torrino, dove abitavano, conduce al cimitero.
E lo vedo andarci da solo, ormai più grande, quando il cuore si rassegna ma non dimentica ed ha bisogno di starsene lì, in solitudine, inosservato, a dialogare. Scorgo i cipressi che svettano da lontano e sembrano toccare il cielo. Odo il rumore dei passi del piccolo Erminio che affondano nella ghiaia del viale, mano nella mano, quasi trascinato verso la tomba di famiglia dove riposano, lei per prima, madre di undici figli, morta di tisi quando Emilio aveva solo tre anni, e poi lui, morto in un incidente stradale quando il bambino ne aveva dieci.
Quegl’occhi belli d’ innocenza, attenti e spalancati più del solito, straziano il cuore dei visitatori che lo conoscono e penano per lui che posa di tomba in tomba il mesto sguardo, fin che dei suoi non trova il lungo del riposo e dell’attesa e incroci i loro sguardi nelle foto. Un bacio, una carezza, un Requiem intonato ad alta voce, mentre tutti si segnano.
San Riccardo Pampuri – la tomba a Trivolzio
Tre anni appena, la zia Maria gli prende la docile manina e gliela porta sulla fronte. Con voce tremula lo segna, prima di dare inizio al rito che si ripete in ogni cimitero: erbacce da strappare, andare a prender acqua alla fontana, rimuovere i fiori appassiti e ricomporre il mazzo floreale di taglio fresco di giardino.
E lui, piccino, attratto più dalla fiammella del lume ad olio, ricaricato e acceso per durare un giorno.
E loro che lo lascian fare, sperando di evitare le domande imbarazzanti. Che vengono lo stesso dopo le preghiere e i tanti baci impressi sulle foto: “Zia, perché?…Perché?E dove sono?… “, le chiede il bambino ingenuo dalle pure labbra. Scava senza pietà su quei destini, interroga, rovista nella mente della sua tutrice…Come potrebbe il cuore darsi pace senza una ragione?
Poi le risposte imbarazzate degli accompagnatori, dure a venir fuori senza strozzarsi in gola e inumidire gl’occhi. La zia Maria per prender tempo, cerca nella borsetta il fazzoletto bianco merlettato; si asciuga il naso, gl’occhi e poi si fa coraggio: “Nanin, sono andati in Paradiso…Gesù li ha presi e li ha portati via con sé…”
– E perché? E fino a quando? E dopo…?
CAMPOSANTO O DEL DOLORE INNOCENTE
Non si tratta di un luogo di terra ma di una dimensione dello spirito che ci si porta dietro ovunque. Ecco: è qui che avviene, di volta in volta, il grande impatto col dolore. Le scarpe non s’impolverano nella ghiaia perché le lapidi, come icone, riaffiorano nella mente che va in processione tra i filari di dormienti, li passa in rassegna, per poi fermarsi e sostare davanti alla zolla che più coinvolge il cuore e che racchiude un prodigio che è già ma non ancora:
«Se il seme di frumento non finisce sottoterra e non muore, non porta frutto. Se muore, invece, porta molto frutto. Ve l’assicuro. 25Chi ama la propria vita la perderà. Chi è pronto a perdere la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io ci saranno anche quelli che mi servono. E chi serve me sarà onorato dal Padre ». (Gv 12, 24-26)
E’ da questo luogo geografico che Erminio entra in confidenza con l’altra dimensione. E’ qui che inizia la presa di coscienza del miracolo della Grazia che lo accompagnerà per tutti gl’anni, fino al giorno del ricongiungimento in Paradiso.
Voce del Maestro interiore, dello Spirito, dapprima confusa, indefinita e poi sempre più chiara col passar degl’anni, che gli sussurra le sole parole convincenti : Gesù non è quel “cattivo” che ruba i genitori ai bambini proprio quando hanno più bisogno di carezze che di pane. Poveretti i grandi; si perdono davanti al dolore innocente, balbettano e non convincono nessuno, men che meno se stessi.
Ho voluto soffermarmi perché le biografie sorvolano sul fatto, come se non si trattasse di un tragico evento ma di una semplice disgrazia, punto e basta.
Mi piacerebbe chiederlo a Giovanni Paolo II che ha fatto la medesima dolorosa esperienza, se per caso quei ripetuti lutti in famiglia non gli abbiano segnato per sempre la vita.
Mi è più facile interrogare un ragazzo di nove anni più grande del Pampuri: il poeta Giuseppe Ungaretti (1888), combattente anche lui sul Carso, quando a Villavicentina e dintorni anche il nostro prestava servizio militare in sanità. Erminio liceale, Ungaretti non era ancora entrato nei libri di letteratura. Lui che non ha potuto trovare sollievo nelle liriche del poeta, ha però trovato conforto e sostegno nelle pagine più robuste delle Divine Scritture.
A noi fa bene accostare entrambi i personaggi che esprimono sensibilità diverse in un comune destino di marcata sofferenza. I lutti di due guerre, la seconda appena conclusa, hanno influito enormemente sullo spirito del poeta, che s’è fatto sempre più cupo e addolorato. E’ utile sentire questa voce che distoglie l’attenzione dalla ricerca della dimensione metafisica e si cala nuovamente nella tragica realtà della vita di tutti i giorni, angosciato dalla perdita del fratello e successivamente anche del figlio.
Egli assiste impotente allo sfascio e alla distruzione dello Stato Fascista nel cui grembo per molti anni si è sentito al sicuro, ed è costretto a prendere atto dell’orrore della sistematica deportazione in Germania di connazionali ebrei e dissidenti. Questi eventi lo sconvolgono. Perso il ruolo di poeta “ufficiale” all’interno delle istituzioni e sospeso dalla cattedra universitaria, Ungaretti viene colpito da un primo infarto. Come già era successo durante il precedente conflitto mondiale, il poeta si cala nel dramma – quello suo personale per la perdita del figlio e quello del popolo italiano – e riversa nel terzo libro di poesie tutto il dolore che percepisce dentro e intorno a sé.
Egli, come pochi, sa interpretare la tragedia della vita, anche per la sua sua indole: «Le mie poesie sono ciò che saranno tutte le mie poesie che verranno dopo, cioè poesie che hanno un fondamento in uno stato psicologico strettamente dipendente dalla mia biografia; non conosco sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta» (Da Vita di un uomo p. 511). E come afferma in un’intervista televisiva: Il Dolore fu scritto piangendo. «Il dolore è il libro che di più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi» (Vita di un uomo p. 543).
…
Pubblicata nel 1947, la terza raccolta di Giuseppe Ungaretti, attraverso questa serie di liriche strazianti, ci è dato di cogliere il vero dolore del poeta.
Da GIORNO PER GIORNO
11.Passa la rondine e con essa estate,
E anch’io, mi dico, passerò…
Ma resti dell’amore che mi strazia
Non solo segno un breve appannamento
Se dall’inferno arrivo a qualche quiete…
13Non più furori reca a me l’estate,
né primavera i suoi presentimenti;
puoi declinare, autunno,
con le tue stolte glorie:
per uno spoglio desiderio, inverno,
distende la stagione più clemente!….
Da ROMA OCCUPATA.
MIO FIUME ANCHE TU
Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
[…]
È stato scritto che questa è la poesia più accorta e più religiosa, nella quale al dolore personale Ungaretti trasfonde l’angoscia del popolo romano per l’umiliante ferita delle deportazioni, dove si fa più drammatica e tesa la sua confessione di fede. Ecco i bellissimi versi di questa tensione sacrale:
Le mie blasfeme labbra: «Cristo, pensoso palpito,
perché la Tua bontà
s’è tanto allontanata?»
Che si rafforza ulteriormente nella terza parte della lirica:
3Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
il Tuo cuore è la sede appassionata
dell’amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
d’un pianto solo mio, non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.
Il giudizio critico di Attilio Cannella:
«La lirica più complessa è Mio fiume anche tu: il Tevere diviene il simbolo del fatale scorrere della “notte” della paura, mentre “Un gemito d’agnelli si propaga / Smarrito per le strade esterrefatte”»
Da I ricordi
La poesia più paradossale ed ermetica è Non Gridate più, in cui il poeta invoca di rispettare i morti e di cessare la guerra.
NON GRIDATE PIÙ
Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate,
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.
«La forza degli imperativi non è quella del comando», ha scritto Guido Baldi. E’ invece un pregare vibrante e dolente che appartiene anche a Fra Riccardo. Egli non va in convento a battere in ritirata ma trascinandosi dietro il carro delle immagini della guerra, della miseria contadina della sua gente, dei valori della solidarietà e della pietà dei suoi di casa e della comunità ecclesiale.
Egli non ha la voce possente e persuasiva di poeta per gridare al mondo di superare odi e divisioni di parte di cui è insanguinata la vita politica e civile dell’Italia, indirizzata verso un secondo conflitto mondiale, senza aver appreso la precedente. Suo fratello è uno dei tanti, tantissimi caduti, cui è stato chiesto un sacrificio davvero inutile.
Ma la vita continua e va difesa, salvata. E Fra Riccardo lo fa raccogliendosi nel silenzio di un Convento-Ospedale. Tra un letto di corsia e l’altro o nella penombra della chiesa, ascolta le voci di ieri ed i nuovi lamenti. Epperò il suo orecchio ormai è sempre più teso a cogliere “l’impercettibile sussurro”, quel lieve mormorio come di vento, che è la voce dello Spirito (Re 19, 16). E si fa condurre per mano e sostenere nella faticosa salita di agnello mansueto, candidato all’immolazione amorosa, per un misterioso disegno di Dio.
Il cardinal Martini ha riflettuto molto sul mistero della fragilità e del dolore innocente a partire dall’icona di Giobbe, figura grandiosa dell’Antico Testamento, simbolo di ogni uomo che soffre. Il messaggio biblico è di straordinaria consolazione: l’uomo percepisce la propria fragilità e la provvisorietà di ogni cosa, ma solo quando accetta di fidarsi di Dio compie un percorso di crescita verso la verità, accettando il proprio limite e trovando le risorse necessarie per affrontare il tempo della prova.
Angelo Montonati, nell’ammettere che quella di Erminio è stata un’adolescenza difficile per la successione dei lutti in famiglia, scrive che non serve scomodare Freud. Benissimo. Allora, poiché il Dr. Pampuri non è stato chiamato a scrivere la teologia del dolore innocente, ma a viverla nella sua carne, non certo nella forma di motuleso ma in quella non certo meno atroce di corpo straziato dalla tisi e, prima ancora di cuore trafitto dalla spada dei lutti, perché non scomodare un altro coetaneo del Pampuri, di soli cinque anni più giovane di lui? Intendo dire Don CARLO GNOCCHI (25/10/1902-28/02/1956).
Parlando di lui, Antonio Sicari scrive: “Nessuno può pretendere di spiegare a un bambino innocente perché soffre, ma è triste che nessuno gli spieghi per Chi soffrire e con Chi soffrire”.
E Don Gnocchi, che ha fatto la guerra in prima linea con gli alpini e che sul fronte insanguinato e popolato di infiniti lutti ha maturato l’idea di dedicare la vita al dolore innocente, ha passato i suoi giorni a spiegarlo. Ora, chi meglio di lui può aiutarci a districare questa ingarbugliata matassa ?
Egli in questo campo è stato precursore e maestro: “La pedagogia del dolore tende innanzitutto a insegnare ai bimbi che il dolore non si deve tenerlo per sé, ma bisogna farne dono agli altri e il dolore ha un grande potere sul cuore di Dio, di cui bisogna avvalersi a vantaggio di molti”.
Lui chiedeva ai mutilatini di offrire il dolore per la conversione del babbo, per un missionario lontano, per la fine di una guerra, per un delinquente, per le intenzioni del Papa. Era dell’idea che nella Messa le nostre sofferenze vanno presentate a Gesù e mescolate con le Sue come le gocce d’acqua nel vino.
Fra Riccardo che potrà dire sul letto di morte: “L’ho amato tanto e tanto lo amo“, è un’anticipata conferma delle tesi di Don Gnocchi. Con la perdita di mamma e babbo, egli ha ricevuto la visita-adozione del “Dulcis hospes animae, dulce refrigerium”, di quell’ ”Ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo” che lo è per chi non vi frappone il rancore.
Egli non ha esitato ad aprire a Colui che sta alla porta e bussa ed è iniziata la Cena che ormai s’è fatta dimora stabile nell’Ottavo giorno senza tramonto: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta io verrò da lui cenerò con lui ed egli con me » (Ap. ,20-22).
Va dato merito alla sua famiglia adottiva ed anche alla sorella, suor Maria Longina, che le ha fatto anche da mamma prima di partire per la missione al Cairo e ancor da là, con la corrispondenza, se Erminio ne è uscito senza grossi traumi. Non ci è dato di sapere come ha sublimato questo suo dolore segreto, ma è indubbio che ha saputo valorizzarlo.
Indubbiamente non ha capito subito perché si deve soffrire ma il «per Chi soffrire e con Chi soffrire» lo ha imparato molto presto, per un dono che viene dall’alto. In fondo questa era l’inaspettata sua vera vocazione. Se si pone ben attenzione a questo ragazzo, si scopre che, come Teresa, è il frate della debolezza, accolto in convento nonostante la nota sua gracile salute. Chi lo ha ammesso, ha profeticamente intuìto che egli aveva qualcosa d’importante da dire e da dare ai suoi fratelli e al mondo intero.
Proviamo a fissarlo ora in questa foto da religioso postulante:
Il dolore è scritto sul suo viso scarno, emaciato. Una pleurite presa sul fronte del Piave, lentamente lo consuma come una candela, fino ad annientarlo.
– Cos’ha da dire al mondo un ragazzo “stroncato”, riuscito a metà, seppur con una laurea di successo in medicina e chirurgia (110 e lode) ?
– Cos’ha da dire un serio professionista, medico condotto, ma che si ritrova, di fatto, impotente e crocifisso da una pleurite buscata per un’impresa di generosità al fronte, che poi degenera e non gli darà tregua, fino a schiantarlo a 33 anni?
Gli è che Fra Riccardo, quest’arancia matura e succosa, pronta per essere spremuta, ha posto la sua vita sotto il segno della Croce e per questo è diventato sapiente. Di una sapienza che non ha finito di sprigionarsi ancora, là, sulla sua tomba a Trivolzio di Pavia.
Nei primi giorni della nuova vita scriveva: «Mi appoggerò al Suo SS. Cuore, mi metterò sotto la sicura protezione delle ali del suo infinito amore ed Egli mi prenderà per mano… e mi condurrà sicuro oltre ogni scoglio nel porto della salute» (23 agosto 1927).
Il Camposanto, con il suo simbolico linguaggio, fin da bambino lo ha instradato sulla Gerusalemme-Gerico, a fare l’esperienza di entrambi i ruoli: di samaritano e dello sventurato che misteriosi ladroni lo hanno reso per anni « un morto che cammina ».
IL PROVOCATORE
Quella del Pampuri è una morte annunciata che risuona come una provocazione profetica per il suo ed il nostro tempo. Sul Catechismo dei Giovani (CEI) si legge: «Non è infatti il patire, che Gesù ha cercato camminando incontro alla sua morte, ma l’obbedienza a Dio, la verità e l’amore per l’uomo. Se questa ricerca lo ha condotto al Calvario, non è in esso che egli riconosce il termine del suo cammino. La croce per Gesù è soltanto il prezzo della fedeltà e dell’amore» (p.149).
Il Card. Martini commenta: «Se poi l’obbedienza è il nome che assume la propria risposta alla vocazione del Padre, come la croce nella luce della Pasqua ci chiama alla comunione dell’obbedienza di Cristo, così la sofferenza può presentarsi – lo dico con tremore – come una vocazione, cui Egli chiama».
Nel caso del Pampuri, non è più il caso di tremare: la chiamata c’è stata e la risposta immediata e generosa: eccomi!
Alle lacrime degli innocenti nessuno di noi sa dare consolazione. Fra Riccardo è stato chiamato a parlare con la vita per i sofferenti di questo mondo che si era scrupolosamente preparato a servire al meglio. Il suo quarto voto di ospitalità ha trovato il suo pieno significato, fino a tramutarsi in carisma, proprio prendendo parte alle sofferenze che intendeva combattere e debellare, diventando così un annunciatore credibile della compassione divina. Ciò gli permette di esortarci anche oggi alla compassione umana.
Chi ha lacrime da versare, trova in lui un contenitore. Oggi, il suo ruolo di frate dell’hospitalitas è di presentarle al trono di Dio. Elevato agli onori degli altari, posto al centro, ci fa capire che il centro non è la sua persona, ma CRISTO, che egli solo rappresenta. Viene a dirci, come lo stesso Papa Giovanni Paolo II che lo ha proclamato santo, «mi glorio della mia debolezza«. (2 Cor 12,10)
Nessuno di noi è chiamato a costruire qualcosa per se stesso, non siamo noi a costruire la Chiesa universale: la forza viene da un’altra parte. A noi, l’esortazione dell’Apostolo che fra Riccardo ha preso alla lettera: «Per conto mio mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime.» (2 Cor 12,14)
Se fosse andata diversamente, l’astio verso Dio avrebbe potuto cambiargli l’esistenza e, forse, non saremmo qui a parlarne.Da quelle ripetute visite di Erminio al Camposanto, come per incanto, è maturato un Santo per il Campo di Dio, la Chiesa: San Riccardo Pampuri.
“Quando un bambino sarà riuscito a comprendere la somiglianza che esiste tra il suo dolore e quello di Cristo, la preziosità che egli può conferire ad ogni sua sofferenza, per sé e per gli altri, inserendola in quella di Cristo, […] con questo egli avrà toccato il centro più profondo e più inesplorato, il più originale ed operante di tutto il cristianesimo, quasi – direbbe Gratry – il “punto verginale” della dottrina di Cristo” (Don Gnocchi – Pedagogia del dolore innocente, p.31)
«Per Misurare quanto grande sia il « volume » di questo capitale, basta pensare al contributo di dolore che, in ogni tempo, hanno richiesto ai bimbi le malattie, la fame, le guerre, l’indigenza, l’abbandono, la miseria e la morte. Di ogni calamità si direbbe che la parte più pesante sia mistewriosamente riservata agli innocenti » (idem p.27)
Madre Giuseppina Vannini viene riconosciuta, confermata e riproposta alla Chiesa e al mondo come “Nuova scuola di carità” secondo la felice espressione di Papa Benedetto XIV. (Papa Benedetto XIV, 1746).
Dal secolo XVI, in cui è nato e vissuto san Camillo, ad oggi, il carisma della carità misericordiosa verso gli ammalati, che Camillo de Lellis ha ricevuto da Dio ed ha trasmesso alla Chiesa, si è arricchito attraverso l’apporto di molte persone significative, ciascuna delle quali ha arricchito il disegno originario del Fondatore dei Ministri degli Infermi, aggiungendovi nuove sfumature originali.
Tra queste figure occupa un particolare rilievo Giuseppina Vannini: “la prima croce rossa di san Camillo, che dopo di lui, splenderà a Roma nella luce dei Beati, segno della validità e continuità del suo intramontabile messaggio”. In tale dinamica appare chiaro che il carisma e la spiritualità della beata Vannini vanno ricompresi alla luce del carisma e della spiritualità di san Camillo, anche attraverso la mediazione offerta dal religioso camilliano, beato Luigi Tezza.
Il Dio ricco di tenerezza e di compassione, sperimentato da san Camillo nella sua conversione (2 febbraio 1575) assume il volto del Cristo Crocifisso, nel quale si raccolgono tutte le sofferenze degli uomini, e quello del Cristo divino samaritano, medico delle anime e dei corpi.
Nell’itinerario esistenziale della Beata Giuseppina Vannini, meno sconvolgente e drammatico di quello di Camillo, ma altrettanto significativo, la scoperta e l’esperienza del volto misericordioso di dio, visibile nel cuore del Cristo crocifisso, e nel divino samaritano, avviene attraverso la mediazione del religioso sacerdote camilliano, Luigi Tezza.
Padre Luigi Tezza propone alla giovane Giuditta – il nome della Vannini prima della professione religiosa – di dedicarsi al servizio dei malati e di collaborare con lui alla fondazione di un istituto femminile consacrato a questo stesso scopo, secondo lo spirito di san Camillo. Questa fragile giovane, impegnata in una sofferta ricerca della propria identità e vocazione – anche lei viene dimessa dall’istituto delle Figlie della Carità – trova nell’ideale camilliano la sua strada, il cammino della sua realizzazione umana e cristiana, la perla evangelica della carità, per acquistare la quale vale la pena vendere tutto.
Sia in Camillo che in Madre Vannini la conformazione a Cristo misericordioso avviene attraverso un quarto voto – quello dell’assistenza ai malati anche a rischio della vita – che forma un tutt’uno inscindibile, non un qualche cosa di semplicemente aggiuntivo, con i cosiddetti ‘voti sostanziali’ di religione, povertà, castità e obbedienza.
Il carisma di un fondatore o di una fondatrice è innanzitutto un ‘dono personale’, in quanto trasforma le loro persone, preparandole ad una particolare vocazione e missione nella chiesa.
Quale trasformazione ha causato in san Camillo e nella Beata Vannini, il carisma della carità misericordiosa verso gli infermi?
In primo luogo, i due fondatori sono stati capaci, sotto l’azione dello spirito di Dio, di diventare dei ‘guaritori feriti’, cioè delle persone capaci di integrare la propria sofferenza, facendo di essa una fonte di aiuto per gli altri.
Il processo di maturazione attraverso il dolore implica un’integrazione riuscita di tale esperienza, una riconciliazione con essa, utilizzando tutte le risorse umane e della fede. Come Camillo “maturato dall’esperienza del dolore”, anche madre Vannini ha percorso questo itinerario che le permetterà in seguito di incontrare gli ammalati e i sofferenti con quella libertà necessaria che ha reso il suo servizio ricco di umana comprensione e partecipazione e veicolo efficace della misericordia stessa di Dio.
Un secondo effetto del carisma sulla persona di Camillo e della Vannini è da vedersi in una ‘progressiva unificazione del loro essere’. Questo significa che l’auto-immagine che i due fondatori hanno elaborato durante la loro vita, mettendo insieme più o meno armoniosamente i diversi ‘pezzi di sé’, ha ricevuto una nuova colorazione dal carisma, questo modo particolare e specifico di attuare la sequela di Cristo nella scelta della radicalità della vita cristiana. Tutte le loro potenzialità e le tendenze della loro persona sono state progressivamente purificate e messe a disposizione di quel settore della promozione del Regno, costituito dal servizio misericordioso degli infermi.
Una particolare attenzione merita a tale riguardo, l’assunzione dell’affettività naturale in quella soprannaturale. In chi è guidato dal dono divino della carità misericordiosa verso gli infermi, tutta la ricchezza affettiva della persona viene purificata e messa a servizio di chi soffre. L’agape, l’amore soprannaturale, non sarebbe vero senza l’utilizzazione appropriata della ricchezza emotiva dell’individuo. La carità, infatti, in un clima di freddezza, di acidità, di scostante burocrazia, in un clima non familiare e privo di vibrazioni psico-fisiche, emotive e sensibili, sarebbe il tradimento di sè stessa.
Un terzo effetto del carisma su Camillo e la Vannini è visibile nel tipo di spiritualità da essi vissuta.
Il carisma è il versante di Dio, il dono, l’ispirazione, la chiamata, la missione, la proposta. La spiritualità è la risposta dell’uomo, la sua adesione, il suo impegno, il suo servizio, il suo modo di portare avanti la sua missione e di condurre la vita nello spirito secondo il dono ricevuto.
Madre Vannini percepisce un forte richiamo a rapportare costantemente al centro tutto il proprio essere e agire al ‘Centro’, costituito, per quanti si ispirano al carisma camilliano, dal Cristo sofferente e misericordioso, nel quale è accolto tutto il dolore umano, e che, divino medico, guarisce i malati. La spiritualità dunque, non si risolve nella preghiera personale e comunitaria, ma è un modo di essere che pervade tutto il comportamento del credente, portandolo ad uniformarsi il più possibile a quello di Cristo:“Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).
A questo punto le conseguenze sono molteplici:
il mondo della salute e della sofferenza percorre le vene della preghiera dei membri della Famiglia di san Camillo;
il servizio del malato diventa esperienza di Dio, atto di culto – dimensione liturgica – nei confronti di Cristo presente in chi soffre: “Ero malato e mi avete visitato” (Mt 25,36);
il servizio al malato p vissuto come un prolungamento dell’azione terapeutica e liberatrice di Cristo.
San Camillo, invitando i suoi religiosi a servire i malati con cuore di madre, aveva avuto l’intuizione che la cura dei malati deve fare appello a quelle qualità ed atteggiamenti che sono tipici del ‘genio femminile’: la ricettività, la disponibilità, la tenerezza, l’accoglienza, la capacità di ascolto, l’intuizione, la sensibilità nel cogliere le situazioni, l’attitudine a farsi carico dei problemi altrui, l’inclinazione ad offrire il proprio aiuto.
Madre Vannini, accoglienza e trasmettendo il carisma della carità misericordiosa verso gli infermi, ha stabilito un’alleanza significativa, con quelle forze d’amore e di misericordia già attivate nella chiesa da tanti santi e sante della carità che hanno dedicato la loro vita ai malati, apportandovi il tocco originale, che la chiesa riconosce e di cui l’espansione della Congregazione delle Figlie di san Camillo è felice dimostrazione.
Di Padre Koffi Médard ABOUE, M.I.
Introduzione
L’Istituto delle Figlie di San Camillo (FSC) non ha altro carisma che il carisma di San Camillo cosi come si evince dall’articolo 1 della Costituzione dell’Istituto: “In trasmissione diretta da San Camillo de Lellis, tramite i Beati Fondatori, la Congregazione ha ricevuto dallo Spirito Santo il dono di testimoniare l’amore sempre presente di Cristo verso gli infermi, nel ministero spirituale e corporale esercitando anche con rischio della vita” (Cost. art. 1). In fondo questa scrittura è, in altri termini, il carisma che l’Ordine dei Ministri dei infermi ha ricevuto in eredita dal proprio fondatore San Camillo nel lontano 1591 e che ha custodito di secolo in secolo e trasmesso a vari istituti religiosi, organismi, associazioni che formano quello che chiamiamo oggi la Famiglia carismatica camilliana (FCC).
L’articolo 1 della Costituzione dei Ministri degli infermi recita: “L’Ordine dei Ministri degli Infermi, parte viva della Chiesa, ha ricevuto da Dio, tramite il Fondatore San Camillo de Lellis, il dono di rivivere l’amore misericordioso sempre presente di Cristo verso gli infermi e di testimoniarlo al mondo”. A proposito è giusto ribadire con P. Angelo Brusco che : “Dal secolo XVI, in cui è nato e vissuto san Camillo, ad oggi, il carisma della carità misericordiosa verso gli ammalati, che Camillo de Lellis ha ricevuto da Dio ed ha trasmesso alla Chiesa, si è arricchito attraverso l’apporto di molte persone significative, ciascuna delle quali ha arricchito il disegno originario del Fondatore dei Ministri degli Infermi, aggiungendovi nuove sfumature originali” (in Camilliani/s, n. 80 anno VIII – settembre-ottobre 1994).
Nella Famiglia carismatica camilliana questo carisma è, nelle varie costituzioni, scritto in lettere d’oro perché è la fonte ispiratrice che legittima presso gli organi decisionali ecclesiali la loro aggregazione con pieni diritti alla spiritualità di San Camillo. In questa FCC spicca in modo eccellente l’Istituto delle FSC per la sua fedeltà creativa al carisma di San Camillo. La beatificazione dei fondatori (Madre Vannini 16 ottobre 1994: P. Luigi Tezza 04 novembre 2001) e la canonizzazione prossima della Madre (13 ottobre p. v.) non sono altro che il riconoscimento della Chiesa dei meriti di questa Famiglia religiosa nello sviluppare il dono che Dio ha fatto al mondo attraverso di lei. Dunque è tutta l’opera dei fondatori ma particolarmente della Madre Giuseppina Vannini che viene riconosciuta, confermata e riproposta alla Chiesa e al mondo come “Nuova scuola di carità” secondo la felice espressione di Papa Benedetto XIV. (Papa Benedetto XIV, 1746).
Ancora secondo P. Angelo, tra le figure fondatrici di un ramo di spiritualità camilliana, «“occupa un particolare rilievo Giuseppina Vannini”: la prima croce rossa di san Camillo, che dopo di lui, splenderà a Roma nella luce dei Beati (e adesso dei Santi) segno della validità e continuità del suo intramontabile messaggio”. In tale dinamica appare chiaro che il carisma e la spiritualità della beata Vannini vanno ricompresi alla luce del carisma e della spiritualità di san Camillo, anche attraverso la mediazione offerta dal religioso camilliano, beato Luigi Tezza». Insomma, tutto della vita e nella vita della nostra Santa dice e respira il carisma di San Camillo.
Madre Vannini e il carisma di San Camillo
L’origine della fondazione dell’Istituto ha qualche cosa di strano, cioè che Madre Vannini è partita dal primo momento con l’idea di fondazione perché cosi voleva Padre Tezza. Non è che la Madre aveva prima vissuto e praticato un carisma che poi gli è stato riconosciuto come per Camillo e per tanti altri fondatori. Ma questo fatto non toglie nulla alla eroicità dell’esperienza di Madre Vannini anzi diventò, nel suo caso, un modo originale perché Dio aveva voluto così. Dal primo momento la Madre aveva chiara l’idea che questa è ormai la sua vera via di santificazione e, alla scuola di P. Tezza, non ha mai dubitato della sua nuova chiamata.
La storia della nostra santa ci restituisce abbondantemente delle condizioni fragili di salute della Madre, condizioni che alla fine le impediscono di concretizzare la sua vocazione nella congregazione delle Figlie della Carità di Siena. Cosi come scrive Suor Emilia Flocchini: “A ventuno anni ottiene il diploma di maestra d’asilo e chiede di entrare nel noviziato delle Figlie della Carità a Siena. Ma poco dopo ritorna a Roma per motivi di salute e per un periodo di prova. L’anno seguente torna a Siena, ma poi viene definitivamente dimessa dall’istituto perché ritenuta inadatta” (cfr. Santa Giuseppina – Giuditta Adelaide Vannini – Vergine, fondatrice).
Queste condizioni di salute diventeranno il punto di forza di una esperienza ricca e forte per la fondazione del suo Istituto. La Madre è diventata credibile come san Camillo perché come lui, lei ha sperimentato nella propria vita e sulla propria pelle la sofferenza, che da lei aveva moltissimi volti: da quelli fisici a quelli spirituali, passando da quelli morali, umani ecc.
Rimasta orfana in tenera età da entrambi i genitori (Angelo e Annunziata), la nostra cara Giuditta conoscerà la vita non tanta tenera dell’orfanotrofio presso le Suore della Carità nonostante l’amore materno delle brave suore. A tutto questo si aggiungeranno la fine inaspettata dell’esperienza con le suore della carità, le condizioni economiche difficili, le menomazioni fisiche e, più tardi, le malignità che erano sorte sul suo rapporto con P. Luigi Tezza. «Tutto il suo operato, l’esempio dato nella cura agli infermi, la fondazione stessa delle Figlie di San Camillo, insieme al padre Luigi Tezza è sanzionato dal crisma della prova e del dolore. Dolore fisico, la lunga cardiopatia, ma soprattutto dolori morali, accettati ed offerti con totale dedizione e generosità» (Dal libretto di Pensieri a cura di P. Carlo Colafranceschi).
Nella Roma di quei tempi, vi immaginate come a 32 anni la nostra Giuditta già senza genitori rimase come col cerino in mano, diremo senza prospettiva né futuro? Non è uno scherzo, era la pura e dura realtà della sua vita. Ma come racconta il salmo 149, “il Signore protegge il forestiero, sostenta l’orfano e la vedova” perché la nostra cara Giuditta non tarderà a scoprire il vero progetto di Dio su di lei. Il signore è grande e misericordioso, lento a lira e pieno di perdono.
L’incredibile incontro con P. Luigi Tezza, camilliano
Nella breve bibliografia che scrisse P. Colafranceschi leggiamo cosi sulle condizioni che permisero l’incontro di Giuditta con P. Luigi Tezza: “Nel dicembre 1891, le suore di Nostra Signore del Cenacolo, residenti in Roma in Via della Stamperia 78, offrivano annualmente un corso di esercizi spirituali alle signore e signorine di lingua francese. Mancando improvvisamente il predicatore ufficiale, le suore si rivolsero al camilliano Padre Luigi Tezza che aderì di buon grado. Il direttore spirituale di Giuditta le passò quell’informazione e la giovane, pratica della lingua, senza indugio si associò al gruppo”.
Quel 17 dicembre 1891, ultimo giorno del ritiro, dall’incontro voluto da Giuditta, due preoccupazioni si incontrano e si danno reciprocamente una mano d’aiuto nel nome del Signore. P. Luigi era confrontato alla difficoltà di rimettere in piedi le Terziarie camilliane e Giuditta con una solida base umana e spirituale era in ricerca di una esperienza religiosa che possa colmare le sue aspirazioni. Con la saggezza che solo viene dallo spirito Santo Giuditta chiese tempo di riflessione al Padre che le propose di prendere in mano la rifondazione delle Terziare camilliane e di fondare un Istituto d’ispirazione camilliana. Nella preghiera lei si presentò due giorni dopo e disse a P. Lugi: «Eccomi a sua disposizione per il suo progetto. Non sono capace di nulla io. Confido però in Dio”. La Giuditta troverà infatti nella proposta di P. Luigi e nel carisma camilliano la propria strada, il cammino della propria realizzazione umana e cristiana, la perla evangelica della carità, per la quale vale la pena vendere tutto per acquistarla
Di fatto, ci possiamo chiedere: Cosa c’è di normale in quel fortuito incontro di due anime? Dio è al commando, possiamo solo dire oggi, noi che vediamo dai nostri occhi le sue meraviglie di Dio nella vita di questi due beati. Mi viene una grande emozione e mi viene di cantare il salmo 123: “Se il Signore non fosse stato per noi – lo dica Israele – se il Signore non fosse stato per noi, quando eravamo assaliti …Il nostro aiuto è nel nome del Signore: egli ha fatto cielo e terra”.
La Fondazione dell’Istituto delle Figlie di S. Camillo
Da questo momento tutto andrà velocemente. P. Luigi senza tardare, informa i suoi superiori e ottiene l’autorizzazione del Cardinale Vicario di Roma a procedere in questa iniziativa. Giuditta inizia a fare vita comune con Vittorina Panetta ed Emanuela Eliseo, preparate da padre Tezza. Il 2 febbraio 1892, ricorrenza della conversione di San Camillo, nella stanza-santuario dove è morto il Santo, le tre donne ricevono lo scapolare con la croce rossa: è l’atto di nascita di una nuova famiglia religiosa innestata sul tronco camilliano”
In Vannini, nelle sue compagne e in tante altre donne si realizza in pienezza con la dimensione femminile il pensiero di San Camillo quando raccomanda di servire l’ammalato come suol fare una mamma per il proprio unico figlio malato. Con loro contempliamo i tratti tipicamente femminili del carisma di San Camillo. Loro hanno interpretato con il genio femminile il messaggio di tenerezza e compassione (cfr. Messaggio di Papa Francesco alla FCC, Roma il 18 marzo 2019) intrinseco al nostro carisma. “San Camillo, invitando i suoi religiosi a servire i malati con cuore di madre, aveva avuto l’intuizione che la cura dei malati deve fare appello a quelle qualità ed atteggiamenti che sono tipici del ‘genio femminile’:
la ricettività,
la disponibilità,
la tenerezza,
l’accoglienza,
la capacità di ascolto,
l’intuizione,
la sensibilità nel cogliere le situazioni,
l’attitudine a farsi carico dei problemi altrui,
l’inclinazione ad offrire il proprio aiuto”
(Angelo Brusco in Camilliani/s, n. 80 anno VIII – settembre-ottobre 1994) che Vannini, le compagne e le Figlie dopo di loro metteranno quotidianamente in atto nella loro cura dell’infermo.
Un’altra prova nella vita della nostra cara Giuditta sarà che “mentre il giovane Istituto si sviluppava rapidamente, si addensarono attorno al Tezza insinuazioni malevoli, con deduzioni nei riguardi delle Figlie di S. Camillo”. Allora nel maggio 1898 il P. Luigi Tezza viene trasferito in Francia poi, il 3 maggio 1900, ricevette l’ordine di partire per il Perù. Obbedì con grande libertà d’animo, liberà di uno che si sentiva davvero innocente. A Lima vi rimase per ben 23 anni che lo portarono a spegnersi serenamente nel Signore il 26 settembre 1923.
“L’allontanamento di padre Tezza costituisce un dramma per madre Giuseppina, che deve addossarsi da sola il peso del nascente istituto. Ma non si perde d’animo: ha ricevuto da lui quanto occorre per proseguire. Dotata di mirabile fortezza e fiduciosa nell’aiuto del Signore, riesce a diffondere l’istituto in varie parti d’Italia, Francia, Belgio e in Argentina. Nonostante una salute debole, spesso travagliata da languori e da emicranie, la fondatrice non si risparmia: visita ogni anno le case, si prodiga per le suore e le accompagna con amabilità e con vigore. Il 21 giugno 1909, dopo tante resistenze, riesce ad ottenere il decreto di approvazione diocesana sotto il titolo di Figlie di San Camillo. Nel 1910, dopo l’ultima visita a tutte le case in Italia e in Francia, è colpita da una grave malattia di cuore… Sentendo avvicinarsi il momento della sua dipartita, ripete alle figlie: «Fatevi coraggio! Anzitutto è Dio che manda avanti le cose e non io. E poi dal paradiso potrò fare voi di più di quello che non faccio stando in questo mondo. Quando io non sarò più, credete pure che si farà meglio di quanto non si faccia adesso» Purificata ulteriormente dal dolore, il 23 febbraio 1911 madre Giuseppina rende serenamente l’anima a Dio” (cfr. Emilia Flocchini).
In sostanza, “alla Vannini si deve quanto nel campo assistenziale-infermieristico le Figlie di San Camillo hanno operato a Roma, Cremona, Mesagne, Brescia, Rieti, Bonsecours, Monticelli d’Ongina, Caprarola, Buenos Aires. Tutto con soddisfazione delle autorità ecclesiastiche e civili, superando difficoltà sorte per incompatibilità ideologica con non pochi rappresentanti anticlericali delle amministrazioni locali. Molte furono le religiose che diedero la vita nell’esercizio del loro ministero, per le fatiche e il contagio assistendo i malati di tifo e tubercolosi. Scorrendo le pagine del Primo necrologio dell’Istituto in cui sono ricordate molte sorelle morte in giovane età per la loro totale dedizione nell’assistenza agli infermi, troviamo lo spirito che le animava, lo stile del servizio con cui si avvicinavano ai malati, ottenendo loro con la carità grandi benefici spirituali oltre che fisiche” (Costanza Petretto, Il femminile del carisma camilliano).
La Madre aveva fissato lo stile dell’Istituto in termini chiari: “È il modo di essere e di agire di una Camilliana verso la comunità, verso il malato e verso sé stessa, con cuore di madre, sì che in qualsiasi parte del mondo andiamo ci possano riconoscere come “le Figlie di San Camillo di Roma” (Madre Vannini).
In effetti, il Decreto della sua beatificazione recita: «Con cura materna e con soprannaturale sapienza guidò la Congregazione perché fosse di gloria a Dio e di servizio agli ammalati, seguendo in ciò l’esempio di S. Camillo, maestro e modello di amorevole e misericordiosa dedizione ai sofferenti. […] Fu amorosamente vicina e assidua madre nei riguardi delle sorelle della Congregazione, degli ammalati, dei poveri, dei peccatori… sollecita com’era della loro salvezza spirituale e corporale; e insegnava alle Suore a comportarsi allo stesso modo con gentilezza e senza risparmiarsi» (Congregatio de Causis Sanctorum, Decretum Beatificationis Servae Dei Josephinae Vannini – Fundatricis Congregationis Filiarum S. Camilli (1859-1911), Roma 7 marzo 1992).
Conclusione: La Carta Magna della Figlia di San Camillo
La Madre Vannini, prima di spegnersi nel Signore a solamente 52 anni ha consumato la propria vita in questa bellissima opera di dedizione generosa al prossimo bisognoso (malato e non). Questo messaggio evangelico che traspare dalla sua vita si riassume in senso pratico in queste regole degli uffici che ha creato tramite le opere di misericordia corporali e spirituali (fine apostolico del suo Istituto): 1. Dar da mangiare agli affamati (cuciniera) 2. Dar da bere agli assetati (cuciniera) 3. Vestire gli ignudi (guardarobiera, lavandaia) 4. Alloggiare i pellegrini (portinaia) 5. Visitare gli infermi (infermiera) 6. Visitare i carcerati (cappellana) 7. Seppellire i morti (cappellana) 8. Consigliare i dubbiosi 9. Insegnare agli ignoranti 10. Ammonire i peccatori 11. Consolare gli afflitti 12. Perdonare le offese 13. Sopportare le persone moleste 14. Pregare Dio per i vivi e per i morti.